Un pezzo della nostra vita. Con la scomparsa di Pietruzzu Anastasi se ne va un altro pezzo della nostra vita. Chi della nostra generazione non ricorda la sua girata di destro, dopo essersi alzata la palla da un passaggio di Picchio De Sisti, con la sfera di cuoio a infilarsi, piccolo grande prodigio balistico, alla sinistra del portiere jugoslavo nella ripetizione romana della finale degli Europei '68, e con l'Italia a fregiarsi alla fine, dopo quel gol e l'altro di Giggirriva, del titolo continentale, l'unico della nostra storia in tale competizione?
E mi ricordo dal vivo di un'Italia-Svezia a San Siro (non ancora Meazza) – era il 29 settembre 1973, una giornata di quelle padane con il cielo bigio eppure accogliente – in cui il nostro, marcatore anche di un gol, aveva fatto ammattire con il suo superbo dinamismo e l'incredibile verve la retroguardia dei granitici scandinavi. Era un portento di mobilità, di altruismo e di perizia Pietro Anastasi, morto a Varese, a causa della tremenda sclerosi laterale amiotrofica, venerdì 17 gennaio 2020 a neanche 72 anni. Ci ha lasciati con la dignità che gli era consueta, che tutti da sempre gli riconoscevano.
Catanese, dalla piccola Massiminiana in serie D trascinata coi i suoi gol in C al Varese in B nel 1966-67 con immediata promozione nella massima serie. E lì quel Varese dei miracoli, con Armando Picchi, che era stato della Grande Inter, a giostrare da libero, Pietruzzu si era subito distinto: 11 gol con una tripletta alla Juventus, che sulle maglie portava lo scudetto tricolore, in un fantasmagorico 5-0. Il Varese fu a lungo secondo alle spalle di quel quasi invincibile Milan, e settimo alla fine con 32 punti, suo miglior risultato di sempre in A (ancora alla ventesima giornata era secondo solitario e alla 26esima in seconda piazza in coabitazione con l'Inter). Quell'anno la compagine della città-giardino sconfisse, oltre ai bianconeri, anche Inter, Milan e Napoli (quest'ultima si classificò infine alle spalle del Milan). E tanto merito fu di quel centravanti inarrestabile che sapeva spaziare su tutto il fronte d'attacco, generoso e pronto a colpire, inventandosi reti su reti, spesso imprevedibili per rapidità e concezione.
Poi fu la Juventus di cui divenne alfiere, anche per i tanti tifosi meridionali che essa annoverava – operai della FIAT che in Pietro si riconoscevano, figlio del Sud e dell'emigrazione che ce l'aveva fatta. Tanti gol con la divisa torinese bianconera, con tre scudetti, anche la fascia di capitano e il record nel torneo di A di una tripletta (contro la Lazio), uscito dalla panchina, in 5' (qualcuno dice 4').
Un unico rimpianto, forse: i Mondiali di Messico e nuvole saltati per uno stupido e banale incidente con conseguente operazione. La storia è nota. La lista dei 22 era già stata fatta. Per la defezione forzata del siciliano furono convocati Pierino Prati e Roberto Bonimba Boninsegna e a casa fu rispedito l'incredulo Giovannino Basletta Lodetti. Fu il Mondiale di Italia-Germania 4-3 e della finale contro il Brasile dei cinque numeri 10 carioca tutti in campo (Jairzinho, Gérson, Tostão, Rivelino, Pelé). Pierino Prati non mise mai piede in campo (pensate... uno come Prati sempre in panchina, ma in suo luogo c'era Rombo di tuono Riva), mentre Boninsegna divenne un eroe: gol ai tedeschi e l'assist per il 4-3 del Golden Boy Rivera; gol del provvisorio 1-1 agli invincibili brasileiros. Chissà come sarebbe stata con Pietruzzu in campo... Probabilmente non sarebbe cambiato alcunché, se non il suo rimpianto, incollato davanti allo schermo in bianco e nero delle dirette dalla Mesoamerica. Un Mondiale poi Anastasi l'avrebbe disputato, quello infelice di Germania '74, con un gol alla formazione haitiana. Ma precoce fu il ritorno nel Bel Paese in conseguenza della sconfitta, 1-2, contro l'allora eccellente Polonia.
Per tornare alle squadre di club, dalla stagione 1975-76 si sarebbe innescato un suo apparente lento declino, con l'approdo all'Inter (una Coppa Italia però), Ascoli, che con Anastasi avrebbe a ogni modo raggiunto grandi risultati, e il Lugano in Svizzera. Segnava molto di meno, ma si spendeva sempre tantissimo, di più: onorava maglia e gioco. Ma Pietro Anastasi, uomo gentile e attaccante rapinoso e al servizio della squadra (eccellente la coppia che formò con Bettega) – il ragazzo che ancora a settant'anni teneva nel portafoglio la figura del gigante gallese John Charles, poderoso attaccante della Juve anni Cinquanta – si era già consegnato (suo malgrado, data l'umiltà) alla leggenda. Una fiamma imperitura, come quella degli accendini che accendendosi come una cometa diffusa popolarono l'Olimpico di Roma dopo il 2-0 ai talentuosi plavi, ancora uniti. Simbolo di un'epoca felice, di speranze non tarpate. Pietro Anastasi, ci manchi...
Alberto Figliolia