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19 luglio 1620. La pagina più triste e ignominiosa della Storia valtellinese 
di Luciano Angelini
18 Gennaio 2020
 

Alle Autorità della Provincia di Sondrio,

dopo tanto tempo, nel 400° anniversario del Sacro Macello, sembrerebbe giusto e doveroso ricordare quegli innocenti così brutalmente trucidati almeno con una targa o un monumento, anche come monito contro ogni forma di intolleranza.

 

Quest’anno ricorre il 400° anniversario della strage dei riformati valtellinesi da parte dei cattolici, strage che viene ricordata col nome di Sacro Macello, compiuta tra il 19 e il 23 luglio 1620 (9-13 luglio, secondo il calendario giuliano allora in vigore nei Grigioni).

Il massacro iniziò a Tirano e a Brusio e successivamente proseguì a Teglio, Sondrio, Berbenno, Caspano, Morbegno e Traona. A Tirano furono massacrate intorno a 90 persone; a Teglio intorno a 60 persone, di cui 19 rifugiate nel campanile della chiesa arse vive; a Sondrio, al Monte di Sondrio, il Malenco, intorno a 170 persone; a Berbenno intorno a 11 persone; a Caspano e Traona 11 persone circa; a Brusio 27 persone: tutti uomini, donne e bambini colpevoli solo di avere abbracciato la Riforma. Al termine del massacro, oltre 200 evangelici lasciarono la valle e trovarono rifugio a Zurigo. “Dei 600 uccisi, chi li scema e chi d’assai li cresce”, dice lo storico Cantù, “poche decine erano Grigioni, gli altri indigeni o rifuggiti d’Italia”.

Il Sacro Macello non fu un’insurrezione popolare religiosa,1 come alcuni cronisti cattolici sosterranno;2 la popolazione valtellinese, infatti, non fu coinvolta se non molto parzialmente; fu, invece, una brutale congiura filo spagnola organizzata dal governatore di Milano don Gomez Suarez de Figueroa e Cordova, duca di Feria, insieme ad alcuni nobili cattolici valtellinesi,3 per lo più proscritti o condannati dal tribunale di Thusis,4 e con la complicità, nemmeno troppo velata, della gerarchia ecclesiastica cattolica;5 tutti interessati a liberare la Valtellina dai Grigioni e dalla Riforma.

Agli Spagnoli, che avevano il loro avamposto nel Forte di Fuentes, serviva, infatti, una valle alleata per poter passare attraverso i passi dello Stelvio e dell’Umbrail dal Ducato di Milano al Tirolo, anch'esso appartenente alla stessa dinastia Asburgo allora regnante in Spagna; i congiurati nobili cattolici valtellinesi filo spagnoli, invece, ambivano, oltre alla vendetta, al potere e di passare alla storia come i grandi liberatori della patria dall’usurpatore grigione e dalla ‘eresia’, (cfr. nota 2); mentre la gerarchia ecclesiastica, che già da decenni cercava di ostacolare in tutti i modi il diffondersi della Riforma protestante,6 (cfr. nota 4), intravedeva nel successo della congiura il ritorno della religione cattolica come la sola praticata e tollerata: non sopportava la presenza degli ‘eretici’ sfuggiti all’Inquisizione e subiva come un’ingiustizia di dover condividere le chiese coi riformati o che le comunità dovessero provvedere al sostentamento dei predicanti.7

Alla strage presero parte alcune centinaia di persone: proscritti, mercenari e gentaglia d’ogni sorta assoldati al comando di Giacomo Robustelli e di Giovanni Guicciardi.8

La rivolta nei Terzieri9 riuscì con lo sterminio dei riformati e la cacciata dei Grigioni, mentre le due contee di Bormio e di Chiavenna non furono coinvolte.

La cronaca del massacro con le parole dello storico Cantù:

Il cavaliere Robustelli accozzò nella propria casa a Grossotto alcuni Valtellinesi di maggior recapito e di spiriti più vivi: il capitano Guicciardi, Anton Maria Paravicini, il giureconsulto Francesco Schenardi, il dottor Vincenzo Venosta (…) giurarono ridurre le vendette ad un colpo e fare a pezzi quanti eretici natii o stranieri, fossero nella valle (…) venne spedito il capitano Giovanni Guicciardi di Ponte per amicare il cardinale Federico Borromeo, il duca Feria e gli altri magnati del governo milanese. Nel che riuscito a poca fatica, ed avutone anzi 300 doppie (30.000 franchi) assoldò esuli e gente d’ogni sorta nel primo sforzo di liberare la patria (…) E già avevano composto che il 19 luglio, mentre gli Evangelici erano assembrati alla predica festiva, dovessero assalirli e trucidarli nel punto stesso, truppe milanesi entrerebbero nella valle (…) Le terre superiori non erano da verun accatolico abitate, né i Bormiesi avevano di che lagnarsi dai Grigioni. Doveva dunque la strage cominciarsi a Tirano, ove aggregati i manigoldi in casa del Venosta (…) sul biancheggiare dell’alba ’ammazza ammazza’ (…) nelle case, per le strade, sui tetti trucidarli. Ben sessanta vennero in diversa foggia scannati, tra cui tre donne (…) Il Robustelli, entrato a Brusio in val di Poschiavo, schioppettò un trenta persone, poi mise fuoco al paese. Falò, diceva egli, per la ricuperata libertà di religione (…) «Ripurgato così, uso le parole del Quadrio,10 dalla eretica peste Tirano e le sue vicinanze» (…) a Teglio (…) i Besta corrono coi manigoldi addosso alla chiesa degli Evangelici (…) a coltella li sgozzano. Diciannove rifuggirono nel campanile, e gli insorgenti, messovi fuoco, li soffocarono. D’ogni sesso, d’ogni età, fin settanta ne uccisero, fin un cattolico, Bonomo de’ Bonomi, perché non prendeva parte all’esecrando atto (…) Intanto Giovanni Guicciardi levava a strage i paesi da Ponte in giù e la val Malenco (…) ben centocinquanta furono trucidati (…) e la ciurmaglia (…) facendo insane gavazze in Campello, gridava: ecco la vendetta del santo arciprete (…) a Berbenno (…) Morbegno (…) Alcuni calvinisti (…) crudelmente ed iniquamente ammazzati. Andrea Paravicini da Caspano, preso dopo molti giorni, fu messo fra due cataste di legna e minacciato del fuoco se non abjurasse: durando costante, fu arso vivo (a Morbegno, ndr) (…) Ignobili affetti presero il velo della religione (…).

Il Sacro Macello e allora e poi fu lodato come santo e generoso da storici, da principi e da papi (…).

I Valtellinesi, in generale ragunata, sortirono al grado di capitano generale della valle, e governatore, Giacomo Robustelli, con 200 scudi il mese «per aver cominciato l’impresa di nostra libertà con sue gravi spese e danno», suo luogotenente il Guicciardi (…). Chiavenna rimase immacolata di sangue.11

Indigna ancora il ricordo di quell’orrenda strage e, alla luce del Vangelo, di come i parroci, che pur ne avevano il potere, non fecero nulla per impedirla, anzi in alcuni episodi vi parteciparono pure attivamente (Cfr. nota 1).

Comunque, l’aver lasciato la valle così indifesa, non in grado di fronteggiare poche centinaia di rivoltosi, o i Grigioni erano degli ingenui sprovveduti, e quindi il loro governo non poteva essere quella ‘tirannia insopportabile’, come scrisse G.A. Paravicini, al tempo arciprete di Sondrio, oppure dovevano ritenere i Valtellinesi piuttosto come degli alleati che dei sudditi.

Il Sacro Macello, insomma, non fu solo un massacro vile e brutale di uomini, donne e bambini innocenti, ma fu anche inutile, in quanto pochi anni dopo la loro cacciata, la Valtellina ritornerà sotto i Grigioni; solo la Chiesa cattolica sembrò ottenere quanto si augurava, infatti, dopo il Capitolato di Milano del 3 settembre 1639, in Valtellina non fu permesso altro culto fuorché il cattolico; bisognerà, invece, attendere ancora più di tre secoli perché si affermi pienamente il diritto alla libertà di religione e di culto.

 

 

1 L’eccidio dei protestanti, come scrive lo storico Ettore Mazzali, fu solo lo strumento a un tempo barbaro, criminale e ipocrita di un’operazione politica per cacciare i Grigioni dalla Valtellina e dalla Valchiavenna. Cfr. Ettore Mazzali, Giulio Spini, Storia della Valtellina e della Valchiavenna, vol. 2, Bissoni, Sondrio 1968.

2 Secondo il Tuana di Grosotto (1589-1636), arciprete di Mazzo dove morì di peste, amicissimo di Nicolò Rusca, arciprete di Sondrio, e del suo successore G.A. Paravicini, i Grigioni in quanto eretici erano la causa di tutti i mali presenti della Valtellina e l’insurrezione dei valtellinesi fu per lui “giustissima e necessaria”. Cfr. Giovanni Tuana, De rebus Vallistellinae, a cura di Tarcisio Salice, traduzione dal latino di Abramo Levi, Società storica valtellinese, Sondrio 1998.

Il Paravicini, arciprete di Sondrio succeduto al Rusca, sui tragici avvenimenti del luglio 1620, scrive: «Convertita in furore la pazienza dei Cattolici, a cui la tirannia degli eretici grigioni, che in materia di religione e di governo civile si era fatta insopportabile, vi si sollevò contro con le armi tutta la Valle, e molti di loro furono scacciati o levati di vita». Da: Gian Antonio Paravicini (1588-1659), La pieve di Sondrio, a cura di Tarcisio Salice, Società storica valtellinese, Sondrio 1969 - pag. 27.

3 I capi della rivolta valtellinese:

Giacomo Robustelli di Grosotto, appartenente al casato di recente nobiltà, in virtù di un diploma imperiale del 1559; era stato nominato cavaliere dei Santi Maurizio e Lazzaro con diploma di Carlo Emanuele I del 1608: il che fa pensare che egli in gioventù avesse militato presso la corte dei Savoia. Aveva sposato la nobildonna Alba Besta, nipote di Rodolfo Planta, e per questa via imparentato con i Planta, i Besta e i Guicciardi, e cioè con due delle maggiori famiglie valtellinesi per nobiltà, censo e autorità, e con la più potente famiglia cattolica dei Grigioni.

Giovanni Guicciardi di Ponte. Ottenne il grado di capitano militando presso le corti di Savoia, di Francia, delle Fiandre e d’Inghilterra; figlio di Giovanni Maria, laureato a Padova in diritto civile e penale, e di Ottavia Quadrio, vantava una nobiltà che alcuni documenti facevano risalire a Carlo Magno e al casato francese dei Guichard; da tre mogli ebbe 15 figli.

I fratelli Azzo e Carlo Besta discendevano da una famiglia pure essa di antichissima nobiltà, che si era espressa splendidamente nell’avito palazzo Besta di Teglio; avevano però sangue retico attraverso la madre, una Travers engadinese, e perciò erano nipoti di Giovanni Andrea Travers, il quale, come governatore della Valtellina nel biennio 1619-1620, li aiutò a salvarsi quando essi ebbero dal tribunale di Thusis la condanna al bando di un anno e alla taglia di mille scudi d’oro; erano infine cognati del Robustelli, che aveva sposato una loro sorella, Paribelli di Albosaggia.

Dei Paribelli di Albosaggia, nobili a cominciare dal 1581, furono protagonisti dell’insurrezione valtellinese Lorenzo e soprattutto il figlio di lui Gian Giacomo, che troveremo successivamente a capo di numerose legazioni diplomatiche inviate dal Consiglio reggente della valle a diverse potenze.

Da Ettore Mazzali in: Storia della Valtellina e della Valchiavenna, vol. 2, op. cit. - pag. 92.

4 I lavori del tribunale iniziarono il 15 agosto 1618. Le condanne furono molte e dure verso i patrizi che alcuni documenti scoperti avevano rivelato essere stati corrotti dall’oro, per sostenere la politica spagnola sui passi retici: il Prevosti fu decapitato, Rodolfo e Pompeo Planta (alcune donne del casato Planta avevano sposato patrizi valtellinesi: Carlo Besta, il di lui fratello Azzo, e Giacomo Robustelli erano nipoti di Rodolfo) e il capo del partito cattolico in Mesolcina, Gian Antonio Giojero, furono banditi a vita con la confisca dei beni, altri sette cattolici del partito dei Planta furono esiliati a vita, il vescovo di Coira, Giovanni Flugi, fu privato del vescovado, la città di Coira, perché ispanizzante, fu multata di 20,000 fiorini: seguirono poi pene minori.

Passando ai valtellinesi, Biagio Piatti fu condannato alla decapitazione, Antonio Maria e Gian Maria Parravicini, e anche Gian Francesco Schenardi furono condannati in contumacia alla decapitazione e alla confisca dei beni, Nicolò Merlo fu proscritto, Giacomo Robustelli, per aver aiutato Rodolfo Planta a fuggire, fu bandito per un anno e multato in mille scudi d’oro, Azzo e Carlo Besta, correi del Piatti, furono condannati alla stessa pena del Robustelli, Francesco Maria Venosta fu bandito per due anni e multato in seimila scudi d’oro, Francesco Parravicini e Gianbattista Schenardi furono multati. Molti dei condannati riuscirono però con le fughe o con i nascondigli a sottrarsi alle pene, così come si erano sottratti al processo.

Ma il fatto più grave fu la morte sotto tortura dell’arciprete di Sondrio Nicolò Rusca. Torturato tre volte, morì la sera del 4 settembre 1618. Il Rusca si era opposto tenacemente alla fondazione in Sondrio del collegio o seminario riformato.

5 Mentre sul principiare del 1620 operava già in valle un vero e proprio consiglio insurrezionale clandestino, una delegazione ecclesiastica valtellinese trattava con il cardinale Federico Borromeo, arcivescovo di Milano. (Da: Storia della Valtellina e della Valchiavenna, vol. 2, op. cit. - pag. 88).

E il Quadrio scrive: «È fama che non mancasse lo stesso Sommo Pontefice Paolo V di animare esso Feria» (governatore spagnolo del Ducato di Milano). Cfr. F. S. Quadrio, Dissertazioni critico-storiche intorno alla Rezia di qua dalle Alpi, oggi detta Valtellina, II. Società Palatina, 1755.

E «venne spedito il capitano Giovanni Guicciardi di Ponte per amicare il cardinale Federico Borromeo», scrive il Cantù in Il Sacro Macello. Tal Guicciardi che sarà poi a capo della rivolta in Sondrio.

6 Il 7 gennaio del 1566 Michele Ghisleri, il celebre inquisitore avversato nella Rezia, fu eletto papa col nome di Pio V, egli come scrive il Cantù tentò presto grandi maneggi fra i grigioni per favorire i cattolici. Fra l’altro Pio V ordinò al domenicano Piero Angelo Casanova di catturare Francesco Cellario, un riformato predicante a Morbegno in S. Pietro. Mentre egli tornava dal sinodo di Zuoz a Morbegno, nei pressi di Novate, fu infatti sorpreso e condotto a forza a Roma, dove fu giudicato e condannato a morire sul rogo.

7 Con i deliberati del 1557-1558 della Repubblica delle Tre Leghe si impose alle comunità locali l'obbligo di lasciare ai riformati una delle chiese dove ve ne fosse più di una (o che cattolici e riformati facessero uso comune della chiesa quando questa fosse l'unico luogo di culto), nonché di mantenere i pastori riformati esattamente come i parroci cattolici, talora dirottando a questo scopo le entrate provenienti da benefici ecclesiastici già esistenti. Le disposizioni, inoltre, comprendevano anche alcune norme restrittive della giurisdizione ecclesiastica del vescovo di Como e circa la presenza di Ordini religiosi nel territorio valtellinese. Questi provvedimenti finirono per suscitare reazioni da parte della componente cattolica della popolazione, che tra l'altro rimaneva nettamente maggioritaria. Le autorità grigionesi si dichiararono sempre favorevoli a una convivenza tra le due confessioni cristiane, la cattolica-romana e la riformata, ma di fatto questa posizione di equilibrio fu vista, dalla maggioranza dei Valtellinesi che non avevano aderito alla Riforma, come un appoggio più o meno velato alla parte protestante.

8 «Il primo sangue versarsi doveva in Tirano, dacchè nei comuni più in su quasi niun protestante contavasi. Resosi il truce Robustelli in Grosotto in un col capitano Simone Venosta, al quale s'aggiunsero Marco Antonio Venosta di Grosio e Vincenzo pure Venosta di Mazzo, posesi alla testa delle bande composte in parte da alcuni proscritti del milanese, del trentino e di molti della bergamasca inviati da Antonio Lollio cognato ad Azzo Besta, da Martino De Federici e da Tommaso Capitanei. Aggiungevansi a questi assai di Grosio e Grosotto, al dire dello Sprecher, infami tutti per venefici, omicidi, furti, spergiuri ed altre scelleraggini». Da Storia della Valtellina e delle già Contee di Bormio e Chiavenna, 1834, di Giuseppe Romegialli (Morbegno, 1779 - Sondrio, 29 gennaio 1861; avvocato, storico italiano) - pagg. 234, 239, 240.

9 Cfr. Storia della Valtellina e della Valchiavenna, vol. 2, op. cit. - pag. 92.

Nota: Durante il periodo grigione la Valtellina era suddvisa in cinque giurisdizioni: Terziere superiore, con capoluogo Tirano; giurisdizione di Teglio; Terziere di mezzo, con capoluogo Sondrio; Terziere inferiore diviso in squadra di Morbegno, con capoluogo Morbegno, e squadra di Traona, con capoluogo Traona. Per il governo della Valtellina le tre leghe inviavano ogni due anni sei funzionari o ufficiali: un governatore o capitano generale e un vicario con residenza a Sondrio, e quattro podestà, uno per ciascuna delle giurisdizioni di Tirano, Teglio, Morbegno, Traona. La rivolta non coinvolse almeno direttamente le Contee di Bormio e di Chiavenna.

10 Francesco Saverio Quadrio (Ponte in Valtellina, 1º dicembre 1695 Milano, 21 novembre 1756) è stato un presbitero, storico e scrittore italiano. Cfr. Dissertazioni critico-storiche intorno alla Rezia di qua dalle Alpi, oggi detta Valtellina, op. cit.

11 Cfr. Il Sacro Macello di Valtellina, 1832, di Cesare Ambrogio Cantù (Brivio 1804 – Milano, 1895; storico, letterato, politico, archivista e scrittore italiano).


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