“Per tutti gli anni ottanta, in cui avevamo vissuto la nostra adolescenza, avevamo assistito impotenti e silenziosi alla menzogna di una celebrazione totalizzante che mostrava questo mondo come il migliore dei mondi possibili, una menzogna che ci era stata imposta da televisioni, giornali, radio, politici, giornalisti, famiglie, comitive di amici, scuole, università, professori, libri, praticamente da tutti meno che dai nostri cuori in silenzio che però ora erano usciti allo scoperto e, nella condivisione di un disagio fino ad allora segreto, si erano ritrovati insieme”.
«Fino a quel momento, a parte l’imperioso slogan sulle scale di Piazza della Minerva ‒ Libertà è partecipazione ‒, tutto quel che si era detto era rimasto tra noi, dentro l’università occupata, e poco o nulla di quel che facevamo o pensavamo era trapelato all’esterno. A quel tempo non c’era internet, e per comunicare avevamo imparato ad usare il fax, che ai nostri occhi sembrava già un mezzo di comunicazione avveniristico, ma si usava quasi esclusivamente per comunicare tra le varie Facoltà occupate, in particolare con Palermo, e comunque internamente al movimento. Il primo a parlare (male) di noi era stato, sulla RAI, il signor Paolo Guzzanti, artefice di una importante quanto odiosa trasmissione televisiva Rosso di sera; noi, pur subendo il colpo, non avevamo risposto. Poi arrivò la troupe di Samarcanda, trasmissione diretta da un rampante Michele Santoro: ci chiesero di fare un collegamento in diretta, congiuntamente con gli occupanti dell’università di Palermo. Cominciò così, quella mattina, verso le nove, nell’Aula Magna della Facoltà di Lettere, la più estenuante ed interminabile delle assemblee. La televisione non solo aveva sensibilizzato i gruppi politici nelle loro contrapposizioni, ma sembrava averci contagiato tutti malamente: tutti gridavano per imporre la propria idea, cercando di impadronirsi del microfono, diventato oggetto del desiderio collettivo come simulacro di un misero potere. Considerando che il microfono potenziava la voce all’interno di un’aula che in quel momento non ospitava nemmeno mille studenti, è facile avere la misura di quale potesse essere di conseguenza il potere della televisione, che, ben più di un misero microfono, poteva potenziare la voce fino a farla arrivare a decine di milioni di persone! Una vera e propria ‘tentazione’ che aveva fatto riemergere in noi un desiderio di potere assolutamente patologico.
Mancava poco più di un’ora alla trasmissione e, dopo ore ed ore di discussioni sempre più caotiche e litigiose, non eravamo ancora giunti a prendere una decisione sul se e sul come parteciparvi. Mentre il giornalista inviato da Samarcanda era rimasto tutto il tempo fermo in un angolo, ad assistere in silenzio aspettando la nostra risposta, la quantità di persone in aula si era dimezzata rispetto alla mattina, e tra quelli rimasti molti gridavano e si contendevano il microfono, senza che si capisse nulla di quel che veniva detto, mentre una parte dell’assemblea, esasperata da quel caos osceno e dalla difficoltà di prendere una decisione, scandiva il grido “Vo-ta-zio-ne! Vo-ta-zio-ne!”, come se votare potesse risolvere qualcosa…
Ma in quel momento avvenne una cosa che mai si sarebbe potuta pensare: una donna non più giovanissima, con i capelli lunghi, mai vista prima (e mai più incontrata nei giorni seguenti, ma seppi che si faceva chiamare Terra), iniziò all’improvviso, da sola, senza microfono, a cantare in una lingua incomprensibile; una melodia melismatica e dolcissima si diffuse nello spazio riempendolo e colmandolo interamente, e producendo come per incanto il silenzio.
Quando finì, nessuno aveva più il coraggio di parlare, e ci furono diversi attimi di silenzio totale, densi di emozione ed imbarazzo. Dopodiché lei disse sorridendo: “Calma… calma…”. A bassa voce, senza microfono né votazioni, fu allora facilissimo mettersi d’accordo: in pochi minuti si decise di prendere parte alla trasmissione televisiva, individuando anche chi avrebbe parlato e a grandi linee cosa avrebbe detto. Da quel giorno, per un po’ di tempo, nelle assemblee non si usò più il microfono e tutti ebbero la possibilità di parlare con calma, uno alla volta, anche di problematiche personali, mentre gli altri ascoltavano senza interrompere.
Fu da quel momento che in assemblea s’iniziarono a considerare i limiti del linguaggio verbale, per cui, affinché la comunicazione funzionasse veramente in una dimensione di confronto positivo, andava protetta mediante il silenzio e il calore di un ascolto rispettoso, attento e compartecipe emotivamente.
Ci rendemmo conto che, senza questa dimensione estremamente fragile di ascolto a protezione, il linguaggio verbale finisce per essere immancabilmente fonte di travisamenti e contrapposizioni che favoriscono chi grida, chi è prepotente, chi parla in modo strumentale e non comunicativo, come arma per imporre i propri contenuti, in un’ottica non di comunicazione e riflessione, ma di potere. Questa considerazione ci portava poi a comprendere come il linguaggio politico usualmente veicolato dai mass-media fosse strutturato proprio sulla contrapposizione e sull’aggressività, il che lo rendeva quindi inadeguato a costruire intersoggettivamente qualcosa di positivo.
La nostra riflessione si soffermò in particolare sui mass-media che avevamo compreso essere una sorta di fagocitatori comunicativi in grado di divorare qualsiasi parola per trasformarla in menzogna, a prescindere dai contenuti di quel che viene pronunciato: dentro i mass-media ogni parola subisce un processo di spettacolarizzazione con cui viene automaticamente distorta nel suo significato, anche se originariamente pronunciata con le migliori intenzioni, finisce per diventare uno strumento utile al gioco del potere.
Comprendemmo cosa voleva dire Pier Paolo Pasolini nel suo celebre e paradossale intervento televisivo quando, proprio dal teleschermo, affermò, nello stupore generale, che qualsiasi affermazione fatta in televisione, anche la più rivoluzionaria e sincera, sarà sempre e comunque un’affermazione totalitaria e violenta, perché è il mezzo stesso della televisione ad essere strutturalmente votato alla non reciprocità del confronto, e quindi alla sopraffazione del pensiero altrui. Iniziammo a leggere McLuhan (sociologo canadese particolarmente interessato agli effetti prodotti dalla comunicazione) e soprattutto Debord (scrittore e cineasta tra i critici più importanti delle società occidentali avanzate) e a parlarne insieme: eravamo la Facoltà di Lettere, e la comprensione profonda dei linguaggi, ancor più nell’era della iper-comunicazione, all’improvviso si rivelò essere un tema fondamentale per la nostra formazione e per la nostra occupazione, e non certo privo di implicazioni politiche e sociali. Attraverso queste esperienze, riflessioni, studi, dibattiti, ad un certo momento molti di noi iniziarono ad allontanarsi radicalmente dalle ritualità e dai linguaggi spettacolari della politica, alla ricerca di altre modalità. Questo alla lunga creò anche confusione, perché non tutti avevano sviluppato questo tipo di visione critica verso i linguaggi verbali e spettacolari della politica, e con il tempo si determinarono fratture nel Movimento. Inizialmente, però, tutto faceva positivamente parte del caos creativo che ci univa.
Ovviamente, nessun professore o quasi aveva raccolto il nostro invito a continuare le lezioni nella struttura occupata, ma, malgrado questo, era ormai evidente che in realtà le lezioni non erano state affatto sospese, ed anzi, in quella nuova dimensione autogestita, lo studio non era mai stato così approfondito ed appassionante: era questa l’università che volevamo e avrebbe potuto continuare così per sempre.
In quei giorni le attività di confronto e studio erano così intense ed entusiasmanti, che iniziammo più o meno tutti a dormire la notte in Facoltà per sfruttare al meglio il tempo a disposizione: ognuno si era trovato una stanzetta, e si era organizzato da solo o con altri. Io me ne ero trovata una sconosciuta, in un’ala dimenticata e remota della Facoltà, al terzo piano, dove non andava mai nessuno, che avevo scoperto attraverso una lunga esplorazione. Lì avevo piazzato il mio sacco a pelo, e mi ero organizzato davvero bene con una luce e una sorta di comodino, e avevo anche un piccolo televisore con antenna per guardare il telegiornale. Tornavo a casa solo per lavare i vestiti, e la mia vita si divideva ormai tra l’occupazione e un lavoretto piuttosto squallido ma ben retribuito che facevo tre giorni a settimana in dei locali come tastierista.
Dentro l’università occupata tutto mi appariva luminoso, mentre quel che vedevo fuori, nel mondo circostante, mi sembrava uniforme e insulso, oppresso dalla menzogna e dallo spreco, privo di onestà. E questo mi portò a chiudermi in me stesso, in particolare rispetto ai miei vecchi amici e alla mia famiglia. Di autoesaltazione in Facoltà ce n’era tanta, ma, nell’ambito del movimento, a costringerci ad un continuo esame critico, era la continua pressione negativa dei mass-media.
Dopo quell’apparizione in televisione avevano iniziato a prenderci di mira in modo sistematico, bacchettandoci e diffamandoci quotidianamente, anche con accuse totalmente false e che, senza pudore, venivano spacciate come ‘notizie’ da giornalisti di testate importanti, tutt’oggi sulla cresta dell’onda, che evidentemente non si facevano problemi ad infamare il loro mestiere con l’uso della menzogna sistematica, della disinformazione. Si affrontò allora il problema di come e se rispondere a questo attacco mass-mediale che coinvolgeva le più importanti testate della nazione. Non volevamo, rispondendo direttamente, cadere nel loro gioco e finire per essere strumentalizzati, ma non ci rendevamo bene conto che, nel momento stesso in cui ragionavamo su queste cose, già eravamo in trappola.
Per rispondere a tale pressione per prima cosa si formò il gruppo PIC (Pronto Intervento Creativo), che ideò e organizzò un grande Corteo Circense, in cui si utilizzava l’espressione artistica e corporea come metodo di comunicazione alternativo al linguaggio logoro della politica e dei mass media; un grande, colorato e fantasioso Corteo Circense, privo di qualsiasi autorizzazione, si mosse quindi in musica come una grande parata di carnevale, se ricordo bene senza uscire dalle mura della città universitaria: un’azione probabilmente insignificante dal punto di vista politico – nel senso tradizionale del termine – ma che nella nostra percezione delle cose fu un evento eccezionale. Come unico elemento esterno ricordo la presenza di alcuni operatori del vicino Policlinico che manifestarono insieme a noi. Ma poi c’eravamo solo noi per noi, in quell’occasione tutti eccezionalmente colorati e folli. A vederci, del mondo esterno, furono solo quelli delle facoltà non occupate, studenti, docenti e lavoratori che passavano per la città universitaria, e qualche fotografo.
A irridere il mare di parole scritte dai quotidiani c’erano, su un’idea di Cesario Oliva (scenografo attore e musicista) il mare e le barchette di carta, realizzate proprio con i giornali, che riempivano la vasca – normalmente sempre vuota – della fontana sotto la nera statua della Minerva, nella quale quel giorno ci divertimmo a sguazzare come bagnanti in vacanza… ma senza bagnarci! C’erano poi alcuni studenti mascherati da corvi neri che entravano gracchiando nelle facoltà non occupate interrompendo le lezioni, per annunciare il corteo.
In quel corteo ogni cosa aveva un suo significato, ma era totalmente priva di parole e slogan: era questa la nostra prima catartica risposta all’attacco dei mass-media, e, anche se non la videro moltissime persone esterne al movimento, ebbe un grande successo tra noi, ci diede forza ed energia, convincendo noi stessi che non eravamo né eversivi né politicamente standardizzati. Occupavamo perché volevamo opporci alle sporcizie del mondo esterno, e cogliere l’occasione per ripensare l’università in modo da renderla utile alla costruzione di un mondo migliore per noi e per tutti.
Ormai, dopo mesi di occupazione, il significato di quel che facevamo aveva preso per noi una forma molto definita e chiara:
- non occupavamo quella struttura adibita istituzionalmente alla costruzione della cultura solo per opporci ad una riforma che imponeva l’entrata delle aziende private dentro l’università, ma anche e soprattutto perché avevamo bisogno di studiare e confrontarci prendendoci uno spazio ed un tempo autonomi dal potere universitario, mass-mediale ed economico;
- solo mediante la protezione di questa autonomia era infatti possibile elaborare compiutamente dei contenuti utili a progettare un’università e una società che non fosse ridotta ad esamificio e a business, che non fosse specchio di un mondo che noi percepivamo come vuoto ed inaccettabile, privo di umanità perché biecamente asservito al potere del dio denaro e del consumismo;
- per tutti gli anni ottanta, in cui avevamo vissuto la nostra adolescenza, avevamo assistito impotenti e silenziosi alla menzogna di una celebrazione totalizzante che mostrava questo mondo come il migliore dei mondi possibili, una menzogna che ci era stata imposta da televisioni, giornali, radio, politici, giornalisti, famiglie, comitive di amici, scuole, università, professori, libri, praticamente da tutti meno che dai nostri cuori in silenzio che però ora erano usciti allo scoperto e, nella condivisione di un disagio fino ad allora segreto, si erano ritrovati insieme.
Noi stessi non eravamo in grado di definirci, e tutte le definizioni che ci attribuivano dall’esterno erano inadeguate: tutti noi cercavamo ‘altro’ dal mondo circostante, senza però nemmeno sapere bene cosa questo ‘altro’ potesse precisamente essere. Oggi possiamo pensare che forse sarebbe stato un bene se non avessimo ceduto alla tentazione di rappresentarci, un’urgenza in fin dei conti imposta dal mondo esterno e non un nostro bisogno reale: questa è almeno l’opinione sostenuta da Carmelo Albanese sia nel suo libro sulla Pantera, sia durante l’occupazione, in alcuni interventi che fece in assemblea, che anticipavano di fatto alcuni aspetti del pensiero successivo del No-Logo (fra i testi fondamentali del movimento antiglobalizzazione pubblicato nel Duemila dalla giornalista canadese Naomi Klein).
Invece cademmo in pieno nel tranello. Almeno, però, lo facemmo con una bella storia: girava in quei giorni la notizia che una pantera era fuggita da una villa o da uno zoo (non ricordo bene) e girava per le campagne romane seminando paura e curiosità, senza che si riuscisse a catturarla; era imprendibile, potremmo dire indefinibile.
L’associazione fu immediata: “La Pantera siamo noi!”.
Non a caso si trattava di una definizione poetica, immaginativa, e non politica o ideologica.
La storia del logo grafico è un po’ meno bella. Dovevamo scrivere su uno striscione il nostro nuovo slogan La Pantera siamo noi! e cercavamo un’immagine da associare. Qualcuno di noi propose il logo grafico di una pantera nera, era stilizzata bene e bella aggressiva, ma nessuno dei presenti si rese conto che si trattava in realtà dello storico logo delle Black Panters americane: lo utilizzammo per lo striscione senza alcuna consapevolezza di quale ne fosse la radice politica originaria, e senza renderci conto che in quel modo quell’immagine sarebbe diventata il logo di tutto il movimento. Ma quando questo fu evidente, i giochi erano fatti, e nessuno si oppose, un po’ per pigrizia, un po’ perché piaceva.
Si potrebbe dire che fu un’adozione fatta con superficialità, ma io preferisco pensare che ci comportammo un po’ come si fa nell’hip hop quando si prendono musiche preesistenti per re-mixarle e costruirci dei rap sopra. E d’altra parte anche i cantastorie di strada, dal medioevo ai tempi più recenti, hanno sempre avuto l’usanza di utilizzare per le loro storie cantate delle musiche preesistenti a cui cambiavano il testo.
Fatto sta che sicuramente non vi fu alcuna identificazione con il gruppo politico afroamericano al quale quel logo grafico storicamente rimandava. Almeno per noi.
Forti di un’identità finalmente fissata in modo comunicativo mediante l’identificazione con la pantera in fuga, programmammo il secondo passo.
Si organizzarono banchetti informativi nelle varie piazze del centro storico di Roma (non senza averne ottenuto i regolari permessi) con i quali bypassavamo di netto i mass-media per comunicare direttamente con la gente che incontravamo casualmente nella strada, distribuendo con il sorriso sia i documenti prodotti dai vari dipartimenti e gruppi di studio, sia i documenti generali che costituivano la piattaforma di base del movimento della Pantera.
In effetti, lo sguardo di noi occupanti del dipartimento di antropologia non poteva che essere rivolto fin dall’inizio alla realtà che era fuori dalle mura della città universitaria: nella nostra materia di studio si guardava ai continenti lontani, alle civiltà differenti dalla nostra, all’Altro da noi, ed anche, in alcuni filoni di ricerca, alla complessità culturale dei tessuti urbani presenti nelle metropoli in cui vivevamo. Ma era uno sguardo rivolto oltre solo da un punto di vista immaginario e non concreto. Le cose cominciarono a mutare nel momento in cui ci interessammo al fenomeno dell’immigrazione, che in quegli anni si stava appena affacciando in Italia; alcuni di noi si presero infatti il compito di studiare in modo critico la Legge Martelli, la prima legge sull’immigrazione che stava per essere votata dal governo craxiano proprio mentre noi avevamo occupato.
Ci volle però del tempo affinché, seguendo quello stesso filone di ricerca, alcuni di noi iniziassero ad uscire sistematicamente dalle mura universitarie per frequentare la Pantanella, una grande struttura industriale abbandonata (un ex-pastificio), situata all’inizio della via Casilina, vicino Porta Maggiore, che era stata occupata ed autogestita da quasi duemila immigrati, provenienti prevalentemente da Asia e Nord Africa. Erano tutti maschi, tranne una sola donna anziana, rispettata da tutti come una regina: questo perché si trattava della prima ondata di immigrazione in Italia in cui le uniche donne immigrate erano le filippine, che avevano però alloggio nelle case degli italiani a cui facevano da domestiche.
Alla Pantanella erano rappresentate molte religioni, c’erano musulmani sciti e sunniti, sikh, indù, cristiani copti, e per i fedeli di ogni differente religione c’era un angolino dedicato alla preghiera, tenuto con grande cura. Al piano terra della palazzina principale erano state poi allestite cucine di varie nazionalità, e, in un periodo in cui ancora erano pochissimi a Roma i ristoranti etnici, lì con pochi soldi si poteva mangiare arabo, etiope, indiano, ecc.
Malgrado le inevitabili tensioni interne, puntualmente amplificate dai giornali, si trattava di uno straordinario laboratorio di convivenza multiculturale e multi religiosa unico in Europa e nel mondo, non solo per le imponenti dimensioni, ma anche per la straordinaria eterogeneità, dovuta al fatto che l’immigrazione in Italia non era legata – come invece in Francia o in Inghilterra – a rapporti di ex-colonialismo relativi a specifiche nazioni, ma solo ad un fatto geografico, in quanto dipendeva solo dal fatto che la nostra penisola è fisicamente un ponte di accesso all’Occidente.
L’eccezionale valore della Pantanella, non sfuggì a noi della Pantera, e fu quasi automatico che alcuni di noi iniziassero a frequentarla, vincendo il timore che quel luogo incuteva per la pessima pubblicità fatta quotidianamente dai giornali.
Sulla Pantanella è stato anche scritto un libro da Renato Curcio (Shish Mahal, Edizioni Sensibili alle Foglie) in cui si mette in evidenza la figura di Monsignor Di Liegro: il sacerdote fondatore della Caritas romana fu infatti molto vicino a questa comunità di immigrati, aiutandoli a redigere un progetto di ristrutturazione delle strutture edilizie della Pantanella, secondo il quale i lavori sarebbero stati realizzati dagli immigrati stessi, costituiti e regolarizzati come cooperativa edile, che poi avrebbero potuto acquistare i locali attraverso dei mutui per abitarci legalmente. Di Liegro portò una delegazione della Pantanella perfino da Giovanni Paolo II, per perorare la loro causa».
(2ª Parte – continua)
(Tratto da Storia di un cantastorie. Daniele Mutino, una fisarmonica itinerante ‒ capitolo “C’era un’onda chiamata Pantera” ‒ racconto/intervista a cura di Maria Lanciotti. Seconda edizione riveduta e aggiornata, con la prefazione di Simone Sassu, musicista, presidente Archivi Sassu, Edizioni Controluce febbraio 2019.
Il libro è corredato di un inserto fotografico che racconta per immagini, in ordine cronologico, le vicende narrate).