“Un florilegio che accoglie un ventennio e forse più di poesia, dalla plaquette più recente e inedita (con 40 poesie successive al 2016) a quella più antica, pubblicata nel 2001” si legge nella premessa di Salvatore Risuglia a Corcillum, “titolo estrapolato da un’affermazione di Trimalcione, lo schiavo affrancato e arricchito, nel frammento più lungo rimastoci del Satyricon di Petronio”, che si potrebbe rendere con “un tantin di cuore”.
Una raccolta che rivela una consueta frequentazione e una profonda conoscenza di poeti e scrittori, spesso citati a conferma di un pensiero. Poesia che parla della vita di cui si cerca di cogliere l’essenza, la verità, non poesia di disquisizioni astratte e filosofiche fantasticherie.
Ci sono gli affetti più cari -figlia, moglie, genitori- colti in momenti del quotidiano ma anche nel distacco e nell’assenza; ci sono esperienze di viaggi con aperture di orizzonti di luce e di bellezza, marcati sempre dalla presenza umana. Gabbiani svolano sovente, il vento trascina e trasforma, si avvicendano le stagioni e tornano primavere di commovente bellezza, spuntano albe agognate, si infuocano tramonti. Animali domestici -gatti- si accoccolano in grembo nel tepore del divano e nostalgia dolorosa assale alla loro scomparsa, insieme alla domanda se anche loro sentano lo stesso dolore nell’abbandonarci.
La silloge è organizzata in modo inverso, parte cioè dalle poesie più recenti e torna indietro. Nel volgere di venti anni si percepisce il trascorrere del pensiero, o meglio il suo rinforzarsi su determinate domande. Nella poesia di Risuglia emerge infatti in modo trasversale un contrasto di fondo -un sentimento che del resto accomuna gli uomini- che lui ha saputo mettere in versi senza scadere nella retorica o nel luogo comune: il contrasto tra la fame di vita, il gusto di vivere in mezzo a “questa bella d’erbe famiglia e d’animali” -vita che pur con le sue difficoltà ha portato gioia- e la consapevolezza della fine a cui non si può sfuggire.
Dio è presente, ma il passare del tempo e l’accorciarsi inevitabile dell’arco davanti a sé porta domande inquiete sul limes, sull’altrove, sul dopo, su Dio, “o qualcuno che gli somiglia”. E sull’anima. Ci si chiede che cosa ne sarà dell’anima pallida, se resti a vagare intorno, quando il corpo si spegne, senza saper se sia felice del transitus o se anche l’anima stessa rimpianga la vita e il suo calore.
Belle le aperture, i quadri di ambiente che l’occhio avidamente coglie, con attenzione ai colori, ai “nidi e agli strepiti d’uccelli”, al “vento malandrino (che) friniva ai vetri delle finestre”, ai trapassi di luce, alla “brigata di bimbi (che) guizza sul tappeto d’erba e neve”, al sussurro di remi” di una gondola, al “rombo di lampi e piovasco”.
Mentre la domanda del finis aut transitus continua a tormentare, quando sembra che a nessuno importi “del nostro cuore minuscolo di carne”, quando si ondeggia tra realtà e sogno e si vorrebbe la leggerezza delle ali per sfuggire al “mondimmondo/ con noi, figuranti alla deriva”, ecco riaffacciarsi la speranza. Molta se ne trae dalla forza e bellezza della Natura.
Se “nonostante” è l’anafora che ritorna nella poesia che apre la raccolta, è proprio quella parola la sintesi del contrasto: nonostante il “garbuglio della vita” è importante sempre che “s’accendano speranze come torce/ su un cammino di stecchi crepitanti”.
Marisa Cecchetti
Salvatore Risuglia, Corcillum
Biblioteca dei Leoni, 2019, pp. 128, € 12,00