“A Palermo, nell’università occupata un mese prima, erano stati subito prodotti dagli studenti documenti contro la mafia (Falcone e Borsellino erano ancora vivi!), e si era dedicata l’aula magna a piazza Tienanmen, in ricordo dei fatti avvenuti in Cina. E fu subito chiara al Movimento l’esigenza di un respiro molto più ampio rispetto all’urgenza di contrapporsi alla riforma Ruberti”
«Il Movimento della Pantera e l’occupazione studentesca è una vicenda che amo molto e che appartiene un po’ a tutti perché è ormai Storia, anche se dalla coscienza storica sembra essere stata rimossa. Almeno questa è l’opinione di molti, ed in particolare di Carmelo Albanese, giornalista autore di un libro pubblicato nel 2010, dal titolo C’era un’onda chiamata Pantera, che fa da riferimento a livello storiografico e in cui sono raccolti vari documenti e memorie di protagonisti (tra cui anche un mio intervento), riuniti in una ricostruzione dal respiro corale. Non è un caso che sia stato proprio Carmelo Albanese a pubblicare la prima compiuta ricostruzione storiografica di questo Movimento: Carmelo è stato anche lui un occupante di Lettere della Pantera a Roma, e più di chiunque altro può raccontarne la storia in quanto al tempo si prese il compito di registrare con una telecamera tutto quel che avveniva, in un periodo in cui ancora nessuno pensava a filmare gli avvenimenti. Bisogna considerare poi che riprendeva “dal di dentro”, dal cuore di quel che avveniva, in quanto non era un estraneo ma parte attiva e coinvolta. Il suo libro è dedicato ad un altro nostro compagno d’occupazione, Antonio Russo, voce libera ed indipendente del giornalismo, attivo sui fronti di guerra e rimasto ucciso su commissione nel Duemila mentre, lavorando sul conflitto in Cecenia, stava per diffondere importanti prove sull’uso di armi non consentite contro la popolazione cecena da parte del governo di Putin. Carmelo mette in luce l’indipendenza e la testimonianza estrema di Antonio come qualcosa di profondamente legato agli ideali e alla visionarietà che mossero il Movimento della Pantera, di cui egli fece parte attiva, e non a caso la memoria di questo giornalista fuori dal coro, che mai volle iscriversi all’ordine dei giornalisti, è stata sostanzialmente rimossa dalla coscienza storica collettiva, proprio così come rimosso è stato il Movimento della Pantera.
Sì, eravamo esaltati, come solo dei giovani universitari, ossia privilegiati, possono essere, ma tuttora penso che il privilegio, quando c’è, non sia necessariamente una colpa, se viene valorizzato come una responsabilità verso la collettività. Quello di occupare, in quel momento, secondo me fu il modo più giusto di mettere tale responsabilità al servizio di tutti.
Comunque bisogna ammettere che l’esaltazione era tanta: nelle aule magne strabordanti delle università occupate, quando arrivava la notizia di una nuova occupazione, tutti gridavamo di gioia e non pensavamo che questo Movimento potesse finire, ma solo che potesse espandersi sempre di più… non ci ponevamo limiti.
Tutto cominciò da un luogo che ha avuto una sua importanza e che ora non esiste più: l’Aula VI della Facoltà di Lettere, un’aula che oggi non a caso è stata letteralmente cancellata anche nella possibile memoria dai lavori di ristrutturazione che hanno modificato completamente la struttura architettonica di quell’ala dell’edificio.
L’Aula VI (con la A maiuscola per una forma di rispetto) era l’aula libera, l’aula degli studenti; un’aula inutilizzata dalle istituzioni universitarie, piena di luce e di spazio, senza banchi, situata a piano terra in fondo ad un corridoio chiuso e buio. Per tutti gli studenti, se ci si doveva vedere da qualche parte in Facoltà, quello era il luogo. Lì la mattina si poteva andare a studiare per proprio conto se si era in grado di studiare senza pretendere il silenzio, perché spesso c’era qualcuno che suonava una chitarra; negli orari pomeridiani ci si facevano anche corsi di teatro e di canto, e ogni tanto i gruppi di studenti politicizzati di sinistra vi organizzavano degli incontri, come quelli da cui partì l’occupazione.
Un bel giorno alcuni studenti che facevano dell’ideologia politica attiva la loro ragione di vita, appartenenti a non mi ricordo a quale sigla, iniziarono a martellare gli altri studenti con volantini, manifesti, raccolta di firme e riunioni, incitandoli ad opporsi alla cosiddetta Riforma Ruberti, una riforma proposta da un ministro craxiano che si proponeva – più o meno – di privatizzare le università.
Il primo slogan fu quindi: “No alla privatizzazione della cultura, no alla Riforma Ruberti!”. Ma non ci furono grandi riscontri tra noi altri studenti poco interessati alle beghe politiche, in quanto concentrati sul dramma quotidiano di dover a fatica prendere parte a quel mostruoso esamificio che era ed è oggi ancor di più l’università.
Poi i ragazzi politicizzati proposero, in aggiunta al primo, un secondo slogan: “Basta libri di testo costosi, vogliamo le fotocopie libere!”. E questo secondo slogan, apparentemente meno ambizioso del primo, ebbe invece un riscontro imprevisto ed eccezionale tra gli altri studenti.
Certo quello slogan era stato pensato dagli studenti della sinistra universitaria nell’ambito della loro contrapposizione politico-ideologica con gli eterni rivali, i cosiddetti ‘ciellini’, ovvero l’organizzazione universitaria di Comunione e Liberazione che, in virtù delle proprie ascendenze presso il potere accademico, gestiva i due gabbiotti gialli posti al centro della città universitaria in cui venivano venduti a carissimo prezzo i libri necessari per fare gli esami. Ma, chissà perché, forse per errore o disattenzione, forse volutamente, nei volantini in cui compariva tale slogan non c’erano riferimenti diretti a questa contrapposizione, né contenuti ideologici. C’era solo un problema concreto di cui tutti sentivano di essere vittime – il costo eccessivo dei libri di testo necessari agli esami – ed una soluzione semplice e concretamente possibile – le fotocopie libere e gratuite, in nome del diritto di tutti allo studio.
La locandina indicava anche l’orario di una riunione pubblica per dibattere di quel che proponeva lo slogan, che si sarebbe svolta all’aula VI della Facoltà di Lettere.
Avvenne però che a questa riunione si ritrovò a partecipare una quantità così enorme di studenti che nemmeno fu possibile farli entrare tutti e fu necessaria una vera e propria assemblea.
Una partecipazione eccezionale, mai vista più in quella università dai tempi delle occupazioni degli anni settanta; fu così che, anche sull’onda di quanto era avvenuto un mese prima a Palermo (dove era stata appunto occupata l’università), fu inevitabile andare tutti dal Preside a farsi consegnare le chiavi della Facoltà per occuparla in opposizione al progetto di privatizzazione proposto dal ministro craxiano e in difesa del diritto allo studio, ossia alla ‘fotocopia libera’.
Ovviamente a guidare questo gesto, deciso con votazione unanime, furono gli studenti politicizzati promotori dell’iniziativa che si trovarono a gestire l’onda di quell’incredibile partecipazione, ma, mentre loro erano dentro la Presidenza a farsi dare le chiavi, fuori della porta c’erano centinaia di altri studenti a dare loro forza.
Furono proprio gli studenti non politicizzati la componente dell’occupazione universitaria, che diede a quell’esperienza il suo carattere di unicità: erano (eravamo) persone prive d’esperienza nella lotta politica, il che significava prive di schemi precostituiti d’azione e comprensione, e questa mancanza si rivelò essere la più grande ricchezza di quel Movimento, anche perché questa nostra ‘apertura’ fu incredibilmente rispettata e perfino assecondata da chi invece aveva una formazione ideologico-politica ben strutturata e definita.
Nell’assemblea la parola veniva inizialmente presa dai leader dei gruppi politici, che avevano le idee abbastanza chiare nelle loro menti, ma le domande che poi prendevano il sopravvento erano quelle della massa di studenti che stava occupando, che non avevano nulla di chiaro se non la scoperta di potere improvvisamente condividere in tanti un comune profondo disagio a cui cercare di dare insieme delle risposte. Nella prima assemblea generale, svoltasi dentro l’aula magna di Facoltà, con più di duemila persone presenti stipate fino all’inverosimile, un po’ spaesati iniziammo subito a chiederci:
- a che titolo possiamo noi impadronirci di una struttura pubblica per sostenere le nostre rivendicazioni?
- si tratta o meno di un metodo legittimo, anche nei confronti di chi la pensa diversamente?
- come fare in modo che diventi un’opportunità per migliorare le cose a vantaggio di tutti?
- ha senso avere occupato una Facoltà universitaria solo per parlare delle fotocopie o della riforma Ruberti?
A Palermo, nell’università occupata un mese prima, erano stati subito prodotti dagli studenti documenti contro la mafia (Falcone e Borsellino erano ancora vivi!), e si era dedicata l’aula magna a piazza Tienanmen, in ricordo dei fatti avvenuti in Cina. E fu subito chiara al Movimento l’esigenza di un respiro molto più ampio rispetto all’urgenza di contrapporsi alla riforma Ruberti. E fu così che, anche a Roma, nelle assemblee non si parlò per slogan e ideologie, e non vennero fatte che pochissime votazioni, ma vennero fuori i dubbi sopiti, gli interrogativi, le questioni sociali, politiche e morali irrisolte e forse non risolvibili, che ognuno di noi aveva portato dentro di sé – senza mai poterle condividere – in tutti gli anni della propria adolescenza. Anni in cui l’eredità del terrorismo e delle esasperazioni degli anni settanta avevano lasciato nella gente, ad ogni livello, insofferenza e paura nei confronti di tutto ciò che era lotta politica.
Ecco però che in quell’assemblea, tutto l’isolamento politico di quegli anni sembrava trovare un senso e fiorire come un silenzio prezioso, come una ricchezza, una verginità mentale che in quella nuova ed inaspettata dimensione di condivisione libera e costruttiva prendeva vita e valore.
Ci confrontavamo sui grandi interrogativi legati alla cultura e alle scelte che la indirizzavano, e non davamo nulla per scontato, dissolvendo così con la forza del nostro candore le certezze di cui erano portatori i ragazzi politicizzati, ai quali fu sì riconosciuto un ruolo importante e preminente, ma non tanto per le loro certezze, quanto piuttosto per la loro capacità di presenza. Furono per esempio loro che iniziarono a dormire nell’università occupata e a prendersi carico, con la loro esperienza, di tutti gli aspetti organizzativi e pratici dell’occupazione, anche se ci volle poco tempo perché anche gli altri studenti si unissero a loro in questo compito.
Appena occupammo, la prima cosa che fu fatta fu affiggere ovunque nella città universitaria dei volantini in cui, annunciando l’occupazione, invitavamo tutti i professori e gli studenti a continuare comunque l’attività didattica. Sapevamo che questo non sarebbe mai successo, ma scrivemmo quella cosa per chiarire subito che il nostro intento non era certo di cacciare qualcuno o di interrompere le lezioni, ma anzi di sviluppare e migliorare lo studio universitario includendovi quella partecipazione e quel confronto intersoggettivo che ‘normalmente’ era assente.
Di fatto, dentro la Facoltà di Lettere occupata, il tempo non era mai perso. Di mattina si facevano in genere le assemblee o si studiava ognuno per proprio conto, e di sera si richiamava gente esterna con feste, concerti e spettacoli. Ma era nei pomeriggi che l’occupazione acquistava pienamente senso, perché si organizzavano seminari autogestiti, corsi, e, soprattutto, c’erano… le commissioni, ovvero i gruppi di studio.
Questi gruppi si formarono sulle tematiche più disparate, alcuni con obiettivi politici e pratici definiti nell’ambito delle rivendicazioni di base:
- c’era un gruppo che aveva il compito di analizzare criticamente ed in modo approfondito la proposta di Riforma del Ministro Ruberti;
- c’era un altro gruppo dedicato alle ‘fotocopie’ che doveva sviluppare una critica al mercato dei libri di testo, elaborando una proposta per la liberalizzazione delle fotocopie, cosa che portò anche a mettere in discussione la concezione del diritto d’autore vigente, allora come oggi appiattita su una prospettiva esclusivamente commerciale, che non tiene conto del valore non monetizzabile della condivisione culturale;
- un altro gruppo si occupava della ricostruzione critica di una memoria storica dei movimenti studenteschi passati, del sessantotto e degli anni settanta, una memoria che sentivamo assolutamente deficitaria per quello che ci era stato detto fino ad allora dai mass media e dalle istituzioni scolastiche, e che invece ci serviva come il pane per comprendere meglio quel che stavamo facendo nell’attualità, muovendoci inevitabilmente sulle orme del passato;
- altri gruppi, suddivisi secondo i dipartimenti della Facoltà, si riunivano per ripensare completamente in modo critico ma costruttivo tutta l’università a partire ognuno dalle propria specifica area di studio.
Furono prodotti così tantissimi documenti scritti, che… chissà dove sono andati a finire!
Essenzialmente dentro l’università occupata io presi parte a due attività: il gruppo di teatro che venne formato da Nino Racco, attore e cantastorie, e che mi avvicinò al teatro di cantastorie, e il gruppo di studio del mio dipartimento, quello di discipline demo-etno-antropologiche, più sinteticamente detto ‘di antropologia’. Non casualmente, molte delle persone che facevano parte del primo gruppo erano anche parte del secondo.
Il gruppo di antropologia lavorò tantissimo, e con grande profitto, producendo un’articolata e documentata critica della correttezza e dell’eticità del rapporto ‘Io/Altro’, nella sensibilità antropologica che stavamo sviluppando, già sentivamo la necessità di sottrarci preventivamente, come movimento, a qualsiasi possibile futura oggettivazione storiografica, e, attraverso la telecamera di Carmelo, di fatto predisponevamo uno strumento che ci avrebbe consentito di farci ‘soggetto’ e non ‘oggetto’ di un eventuale racconto dell’esperienza che stavamo vivendo.
Analizzammo criticamente il modello non solo economico ma anche filosofico ed intellettivo dell’Occidente, rifiutando quel pensiero dominante che lo indicava come modello assoluto, come destino inevitabile dell’umanità.
Parallelamente, valutammo in modo molto critico le politiche economiche e culturali di espansione dell’Occidente, analizzando tutti i risvolti del fenomeno dell’etnocidio, che coinvolgevano altri fenomeni paralleli come le guerre, le deforestazioni, lo sfruttamento delle risorse, il debito pubblico dei paesi del Terzo Mondo e i cosiddetti aiuti al Terzo Mondo, le modalità della distribuzione alimentare, l’impatto della finanza sulle culture, le rivendicazioni dei popoli indigeni del pianeta, la gestione della memoria, fino alle problematiche della musealizzazione etnologica, dell’esotismo.
Come il movimento nel suo complesso, anche nel nostro gruppo di studio cercavamo di rimettere in discussione quel mondo che era stato celebrato negli anni ottanta come il migliore possibile, e, nel nostro specifico, cercavamo di farlo a partire dai fondamenti metodologici delle discipline che studiavamo: l’antropologia culturale e l’etnologia.
Sottoponemmo quindi ad una intensa analisi critica i fondamentali libri di testo e le metodologie della materia. Il dibattito, però, prese forza in modo inaspettato ed entusiasmante, e diventò come una febbre, una passione: si discuteva per ore ed ore di antropologia non solo durante le riunioni di dipartimento, ma anche nei corridoi, a mensa mentre si mangiava, ovunque e in qualsiasi momento, spesso in gruppi ristretti, anche di solo due o tre persone. Un laboratorio permanente di studio comunitario, sviluppato nel regime di convivenza dell’occupazione. Spesso in questo modo ci trasmettevamo la conoscenza critica d’interi libri. Ricordo diverse notti passate per intero a parlare con un compagno di antropologia, Fabio Mura, che ci spiegava con ardore un libro di Dario Sabbatucci intitolato Il Mito, il Rito e la Storia, un libro molto bello ma anche molto difficile che, obbligatorio nei programmi d’esame della cattedra di Storia delle Religioni, pochi di noi riuscivano a capire, e che invece, attraverso questi incontri, non solo comprendemmo perfettamente, ma fummo poi anche in grado di padroneggiare criticamente e di mettere in relazione con altri libri della materia. E ricordo il trauma che alcuni ebbero quando uno di noi ci fece conoscere l’autobiografia di Rigoberta Tum Menchù ‒ pacifista guatemalteca Premio Nobel per la Pace 1992 ‒ che raccontava le violenze efferate perpetrate dai militari in Guatemala contro gli indios. Ci sembrava impossibile che un genocidio così terribile di un popolo indio fosse avvenuto per anni davanti agli occhi del mondo senza che la stragrande maggioranza di noi ne venisse a conoscenza, noi che pure, in quanto studenti di antropologia, eravamo particolarmente sensibilizzati alla questione dei diritti dei popoli indigeni! Qualsiasi cosa poteva allora avvenire nel mondo, ed essere al contempo nascosta alla collettività! Questo ci spinse ad approfondire sia i meccanismi economici che regolano il rapporto tra Occidente e paesi del Terzo Mondo, in particolare in relazione ai diritti negati dei popoli nativi e alle deforestazioni, sia il ruolo dei mass-media e i meccanismi globali di disinformazione. Iniziammo così a studiare i testi dei principali antropologi delle società complesse, che a quel tempo non erano così comuni in ambito universitario. Pian piano riscoprivamo libri ignorati dai programmi universitari d’esame, tra cui quelli fondamentali di Ernesto De Martino, storiografo umanista, che in quegli anni ancora nessuna cattedra inseriva nei programmi d’esame ed erano introvabili in libreria.
Questo dibattito ci aiutò ad acquisire e padroneggiare il linguaggio e i concetti della materia più di quanto non avevamo fatto con le lezioni universitarie, il che ci fa comprendere come la radice della vera Cultura, quella con la ‘C’ maiuscola, sia nel vivo confronto intersoggettivo, nel dialogo critico appassionato, così com’era stato all’origine della civiltà occidentale (penso al dialogo socratico), e non nell’acquisizione passiva di informazioni, concetti e metodi enunciati unidirezionalmente dai vari professori, come era allora imposto dal sistema universitario e come oggi sembra essere ancora più esasperato nella follia degradante delle università private on line. Nella nostra esperienza la presenza intersoggettiva era fondamentale, e, come nella moltiplicazione dei pani e dei pesci, tale condivisione sembrava avere innestato una moltiplicazione della nostra conoscenza.
Dei nostri stessi professori ora vedevamo, oltre che le qualità, anche limiti, miserie, contrapposizioni sterili e squallori.
Preparammo allora dei documenti con cui chiedevamo all’istituzione universitaria una maggiore collegialità sia nelle lezioni sia nell’individuazione dei programmi d’esame, chiedendo in generale anche che i programmi fornissero una preparazione metodologica, critica e pragmatica rispetto a quella che è l’antropologia applicata sul campo, che individuammo come il nodo centrale e carente della materia. Ci predisponemmo anche ad organizzare dei seminari autogestiti, che poi furono realizzati quando l’occupazione era ormai finita.
Si potrebbe dire che quello fu un movimento segnato complessivamente da una sensibilità antropologica. Innanzitutto, anche senza una specifica consapevolezza, l’Altro era percepito e vissuto distinto come una ricchezza, sia nel dibattito politico, in cui le diversità di opinioni erano sempre rispettate, sia nella dimensione semplicemente umana della vita condivisa in pieno.
Nella Facoltà occupata, per esempio, facevano presenza fissa alcuni zingarelli ‒ ricordo con grande affetto i piccoli Samson e Aisha ‒ e diverse persone “particolari” con problemi di natura psichica. Stavano bene lì con noi perché trovavano accoglienza, serenità e affetto, e potevano esternare ed esprimere liberamente il loro modo di essere. Anche nella nostra percezione, loro non erano presenze marginali, ma stavano a tutti gli effetti con noi, erano parte di noi, parte di quel bell’affresco corale che era l’occupazione della Facoltà. Noi stessi ci sentivamo “particolari” e davamo spazio, in quel luogo, anche a quei comportamenti che potevano essere il frutto di un’irritazione, di un nostro disagio. Tutto questo era ben visibile anche solo dal colpo d’occhio della scalinata di accesso alla Facoltà occupata, che ricordava, nella sua armonia e dinamicità, la Scuola di Atene di Raffaello!
Sulle scale c’erano gli studenti seduti a gruppetti a fumare, bere e chiacchierare, il solito poeta matto che a gran voce recitava le sue poesie improbabili. Seduto sulla parte sinistra delle scale c’era quasi sempre Massimiliano ‒ detto il “professore” ‒ che, col suo bel vocione ‘guccinesco’ e la sua chitarra sempre intonata, cantava a richiesta vecchie canzoni di cantautori, chiedendo in cambio una sigaretta, sempre circondato da belle ragazze affascinate dalla sua figura, che lui però non aveva mai il coraggio di corteggiare. Alla base delle scale, sulla strada, c’era ogni tanto lo spettacolo di un’artista che faceva cappello, o qualcuno che volantinava. Poi, c’erano quelli che entravano ed uscivano, e percorrevano le scale districandosi tra la gente seduta con dei veri e propri slalom, puntualmente ‘tallonati’ da Samson e Aisha che, con la loro voce squillante di bambini di strada, chiedevano loro, petulanti ed allegri, un’elemosina. Sulle pareti del ballatoio c’erano cartelloni appesi con avvisi politici e slogan, e, a dominare tutto ciò, appeso sopra il portone d’ingresso della Facoltà, il grande striscione con su scritto: ‘Lettere occupata’. Dentro la Facoltà, abbellita dai murales dei writers del movimento, oltre al lavoro intellettuale e politico, c’era tutta una vita condivisa che si sviluppava molto nelle cose pratiche. A partire dal cibo, visto che si tendeva a mangiare il più possibile insieme. Uno dei momenti per me più importanti fu quando Fabio Mura mise da parte le disquisizioni antropologiche, si rimboccò le maniche e, facendosi aiutare da alcuni di noi, riuscì ad aggiustare il water del pianoterra che si era intasato. Quest’azione concreta, meglio di qualsiasi discorso riuscì a richiamare tutti quanti noi al valore di una partecipazione non solo intellettuale ma anche e soprattutto pratica. Non a caso quei giorni comparve sulla scalinata centrale di Piazza della Minerva, la più grande piazza della città universitaria, una grande scritta con uno slogan preso da una canzone di Giorgio Gaber: Libertà è partecipazione. Una frase meravigliosa che sintetizzava tutto il significato dell’occupazione, e, per il messaggio che veicolava, riempiva d’orgoglio tutti noi occupanti.
Poi un giorno arrivò la televisione».
(1ª Parte – continua)
(Tratto da Storia di un cantastorie ‒ capitolo “C’era un’onda chiamata Pantera” ‒ racconto/intervista a cura di Maria Lanciotti. Seconda edizione riveduta e aggiornata, con la prefazione di Simone Sassu, musicista, presidente Archivi Sassu, Edizioni Controluce febbraio 2019.
Il libro è corredato di un inserto fotografico che racconta per immagini, in ordine cronologico, le vicende narrate).