Una lettura che regala emozioni forti, che ha bisogno di essere elaborata e sedimentata. Tocca tante corde e le sommuove: «Dire, il primo libro pubblicato da Fabio Michieli [...] un lavoro che, per la sua levigatezza e per le sue chiare atmo-sfere novecentesche (ma non solo), ebbe la strada aperta a una delle collane più rappresentative, “I codici del ’900”. Ora questo gioiellino [...] fa il proprio ingresso ne “La costruzione del verso”» (dalla prefazione di Gian Franco Fabbri).
Con un andamento circolare la raccolta si apre col richiamo-bisogno di “una pagina bianca/ quasi pura” e chiude con la “pagina tornata bianca”, rimandando concretamente all’atto del Dire, quando la mano comincia a tracciare segni che il cuore suggerisce e la mente organizza, fino al momento in cui la mano si ferma e vede davanti a sé una pagina non toccata più. Con la consapevolezza gioiosa e commossa di aver dato la voce, quella giusta, alle cose.
È un ruscellare di versi, in genere senza la interruzione di un titolo, come in un unico fluire di pensiero. Il tempo andato è ricercato con cura, anche nei momenti di massimo dolore, col dispiacere tuttavia di un “risveglio già tardo”, e il non detto, il non ascoltato, genera rimpianto: “quanti allora mi parlavano/ senza che comprendessi un solo suono”.
Non siamo noi a stabilire la nostra vita; anche se la nostra volontà, il nostro senso etico e la coscienza incidono sulle scelte e sulle azioni, fondamentalmente “tutto soggiace a un’intesa voluta da altri”. Talora si rimane a guardarsi da fuori, come sospesi davanti al reale che diviene, si sta come un “involucro/ cavo dove trova rifugio l’uomo che non sarò”. Rimane la libertà di rivendicare il diritto alle illusioni ma le mani si tendono verso chi sfugge irrimediabilmente - vago rimando foscoliano - ed il tramonto ne rimane simbolo, “fugge le mie mani tese, il tramonto”.
Compare un tu femminile, si sente la durezza di uno sguardo di rabbia, lei diventa figura d’ombra davanti agli occhi accecati dalla luce del sole, un volto che si appanna, in un divario che si allarga.
Forte e struggente il sentimento dell’assenza di figure parentali, con l’urgenza di dire ancora, con la sensazione di una quaresima che si ripete con le ceneri che si disperdono nell’aria, ma anche con il recupero di momenti di sorriso condivisi ed una immagine che resterà immutata, “i tuoi settanta restano immoti”. Non stabiliamo noi il tempo della vita.
Quello che coinvolge e trascina, al di sopra dei messaggi, è un linguaggio musicale, leggero ed allo stesso tempo cadenzato come nel ritmo di un tango - “stacca il tacco dal fondo e accenna un passo/ ne attacca un altro” - ricco di tramonti che infuocano le case, di profumi, con un ritorno costante di contrasti di ombra e luce, di tramonto e alba, di nebbia e sole, di morte e vita. In un continuum aperto alla vita, ché la notte porta il giorno, il fiore il frutto ed anche la morte porta la vita. Rimane questa sensazione di levità, con immagini di nubi che coprono e scoprono il sole, di nebbia che avvolge, di calli stanche, ma soprattutto di luce. Con la piena consapevolezza del privilegio dato ai poeti di poter eternare col canto.
Marisa Cecchetti
Fabio Michieli, Dire
L’arcolaio, 2019, pp. 98, € 12,00