Storia di un matrimonio, il film che l'autore americano Noah Baumbach ha dedicato in effetti alla storia di un divorzio, se in apparenza racconta soprattutto un conflitto tra due coniugi, a ben guardare racconta in primo luogo il conflitto tra due principi, come l'Amore e la Legge.
I due personaggi – lui regista teatrale di una compagnia off di New York, lei attrice di quella stessa compagnia almeno finché dura il loro matrimonio – si separano per iniziativa della donna, che ritorna nella sua città di origine, Los Angeles, portando con sé il loro figlio. Ma pur separandosi entrambi continuano manifestamente ad amarsi.
Il loro conflitto è dovuto, infatti, piuttosto che ad un esaurimento dell'amore, a un desiderio di indipendenza della donna, che a New York, sotto l'ala protettrice del marito, in una compagnia teatrale dove ritiene ormai di avere un ruolo secondario rispetto al coniuge, sente di non potersi realizzare a pieno, mentre a Los Angeles potrà riprendere la sua carriera di attrice di serie televisive, interrotta dal matrimonio; e puntare lei stessa al ruolo di regista di quelle serie.
Ma come accennavo, questo conflitto, tutto psicologico, non è primario nel film di Noah Baumbach; perché al centro del film ci sono piuttosto le sue conseguenze. La donna, per la tutela dei suoi interessi, e forse per timore della personalità predominante del marito (c'è in ballo l'affidamento del figlio, e la decisione se lui dovrà vivere a New York o a Los Angeles) si affida a una celebre avvocatessa di Los Angeles.
E se il marito, in un primo tempo, vorrebbe risolvere la controversia amichevolmente, in via extragiudiziaria, si trova alla fine costretto a fare ricorso anche lui a un avvocato.
Si mette così in moto una complessa macchina giudiziaria, alimentata da cavilli giuridici, da consulenti del tribunale, da avvocati che pretendono costosissimi onorari (tali da esaurire i finanziamenti della compagnia teatrale), dai colpi bassi che quegli avvocati infliggono agli assistiti dei loro avversari; una macchina giudiziaria che si dimostra così crudele, così spietata, nei confronti di entrambi gli ex-coniugi, da trascendere di gran lunga i loro propositi di vendetta; che loro stessi, dopo averla messa in moto, sono incapaci di arrestare; e il cui risultato è una decisione la cui giustizia può lasciare perplessi.
La sensazione che resta dal racconto è che gli stessi coniugi, armati di ragionevolezza, sarebbe potuti giungere attraverso il dialogo, allo stesso compromesso o a un compromesso migliore.
Ma allora, forse, più che le procedure del divorzio, è lo stesso istituto del matrimonio a essere messo indirettamente in questione dal film; un istituto che, privato del suo senso religioso, resta evidentemente un fatto giuridico. Ma le leggi che lo disciplinano non sembrano collimare con le dinamiche dei sentimenti, e anzi le prevaricano o le esasperano.
Questa sotterranea polemica contro la civiltà giuridica che fiorisce intorno al matrimonio fa sì che, per esempio, le figure degli avvocati siano rese con un sottile umorismo, con un intento satirico, che però non le altera mai fino al punto da renderle irrealistiche. Mentre i ritratti dei due coniugi sono più complessi, più sfumati, tali da farci intuire le ragioni e i torti di entrambi; tanto che è impossibile attribuire all'uno o all'altro la patente del buono o del cattivo.
Il film è molto ben recitato, in primo luogo dai due attori protagonisti, nel ruolo dei due coniugi, che sono Adam Driver e Scarlett Johanson.
È uscito in un numero limitato di sale, del circuito d'essai, ma dal 6 dicembre sarà visibile su Netflix che lo ha meritoriamente prodotto.
Gianfranco Cercone
(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 30 novembre 2019
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