Credo che l'allegoria si possa conciliare con difficoltà con l'arte e con la poesia: perché nell'allegoria fatti e personaggi non hanno tanto valore per se stessi, quanto per il significato, più ampio, generale, a volte universale, che l'autore attribuisce loro. Mentre nell'arte il valore principale dovrebbe essere dato all'individuo, e ai sentimenti concreti che in circostanze ben determinate lo animano.
Sono consapevole che questi principi così seccamente enunciati possono prestarsi a varie obiezioni e controprove, che qui non c'è tempo di anticipare e discutere.
Mi sembra però evidente che l'impianto del film che ha vinto la Palma d'Oro all'ultimo festival di Cannes – si intitola: Parasite (Parassita) e lo ha diretto il regista sudcoreano Bong Joon Ho – sia un impianto allegorico.
Il racconto consta di due ben distinti gruppi di personaggi, ognuno dei quali rappresenta, senza sfumature ma in modo netto e limpido, alcune caratteristiche che l'autore attribuisce alla loro classe sociale di appartenenza.
Il primo gruppo è composto dai poveri, i quali, rintanati in un fetido scantinato, non hanno altro intento che di impadronirsi come possono dei beni dei ricchi, e, allo scopo, riescono a essere feroci e diabolicamente astuti.
E poi ci sono i ricchi che, nelle loro ville lussuose, adagiati sulle loro ricchezze, sono snob, viziati, molli, ciechi di fronte alle realtà estranee alla loro bolla dorata, tanto che si lasciano truffare dai poveri senza mai accorgersi delle loro manovre.
Quanto a tali manovre, superano volentieri i margini della verosimiglianza. È forse possibile che un padre di famiglia maturo, da tempo disoccupato – uno dei poveri, appunto – si trasformi nel giro di una mattina, addestrato dal figlio in una macchina di ultima tecnologia esposta in un autosalone, in un autista provetto, irreprensibile, al servizio del padre di famiglia dei ricchi?
Oppure che una governante improvvisata nella villa dei ricchi – la madre della famiglia dei poveri – sia in grado di cucinare in quattro e quattr'otto, su ordinazione della madre dei ricchi, un piatto che per sua ammissione prima di allora non aveva mai nemmeno sentito nominare?
Ma sono, queste e altre, delle inverosimiglianze di cui, assistendo al film, non ci curiamo, che non costituiscono per noi dei difetti, perché, piuttosto che le azioni concrete dei personaggi, conta qui il loro significato, che il racconto riesce comunque a esprimere compiutamente: e quel significato è il parassitismo, quella strategia per cui il parassita riesce a introdursi gradualmente nell'organismo di cui si nutre, fino a colonizzarlo del tutto.
Parasite vuole essere la rappresentazione di un mondo rigidamente diviso in classi sociali sempre più divaricate tra loro, nel quale ai poveri, per migliorare la loro condizione, non resterebbe una diversa alternativa che depredare le sostanze dei ricchi.
È una visione, un giudizio sul mondo che può forse confortare chi ritiene che la divisione della società in classi, e la lotta di classe, sia il centro e il motore della Storia.
Ma anche ammesso che tale visione, così semplice, sia in parte o del tutto veritiera, un racconto tutto teso a illustrarla, risulta necessariamente schematico e didascalico.
Ciò detto, bisogna riconoscere che quell'illustrazione avviene attraverso immagini così ben progettate, pur nella loro convenzionalità, da essere ammalianti; che tutti gli attori impersonano alla perfezione quei clichés a cui i loro personaggi sono ridotti; e che il racconto riesce a intrattenere, e a volte a divertire, senza mai ristagnare.
E tuttavia, proprio per la sua allegorica astrattezza, Parasite non è, a mio parere, quella grande opera d'arte che in tanti, in primo luogo i giurati del festival di Cannes, hanno voluto riconoscervi.
Gianfranco Cercone
(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 16 novembre 2019
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