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Giuseppina Rando. Il percorso umano, esistenziale e religioso di Clemente Rebora
29 Ottobre 2019
 

nella tormentata ricerca di una fusione

tra il pensiero illuminista

e il personale cupio dissolvi

 

 

Ritenuto come la voce più alta della tendenza espressionistica della Poesia del Novecento, Clemente Rebora ha impresso alla propria opera un’impronta di reale, tormentato esistenzialismo di cui emergono tracce in ogni fase della sua vita.

Nasce a Milano il 6 gennaio 1885 da una famiglia di tradizione laica di origine genovese: il padre, che era stato con Garibaldi a Mentana, tiene il ragazzo lontano dall'esperienza religiosa e lo educa agli ideali mazziniani e progressisti, tanto in voga fra la borghesia ambrosiana del tempo.

La madre, Teresa Rinaldi, donna sensibile e religiosa “fu essa stessa geniale scrittrice di versi rivelanti spontanea vena poetica”1 e da lei il figlio ereditò oltre l’amore per la letteratura, l’ansia metafisica.

Il fratello Piero parla di due sentimenti molto profondi e presenti in Clemente: l’amore per la patria e quello per gli “ultimi” ed i puri di spirito.

Indubbiamente, però, l’influsso della cultura del tempo, di stampo illuministico, contribuisce ad aggravare “lo stato di disagio dello spirito del giovane, sempre teso alla ricerca ansiosa di una disciplina spirituale meno razionalistica ed idealista”.2

Tutta la produzione letteraria di Rebora appare, appunto, come segnata da un lungo sforzo di liberazione della problematica di una simile eredità, la quale condizionò la sua vita e la sua poesia per raggiungere solo molto tardi una certezza di trascendenza e una risoluzione poetica, quasi “mistica”.

Dapprima il giovane cerca di appagare le sue inquietudini spirituali con studi di medicina e di musica che, tuttavia, abbandona presto per passare all’accademia scientifico-letteraria di Milano dove si laurea in Lettere con una tesi su Gian Domenico Romagnosi. Qui Rebora incontra condiscepoli di grande ingegno, con i quali intrattiene appassionanti conversazioni.

Dal 1910 al 1915 insegna in varie scuole tecniche e serali a Milano, Treviglio e Novara. Comincia a collaborare alla Voce di Prezzolini, che nel 1913 pubblicherà la prima raccolta in versi i “Frammenti lirici”.

Tra il 1913 e il 1919, vive un’importante storia d’amore con la pianista russa Lydia Natus; con il suo l’aiuto si dedica allo studio del russo tanto che pubblicherà, in seguito, traduzioni di Andreev, Tolstoj, Gogol’. Prende parte alla Prima Guerra Mondiale come ufficiale ed è assegnato in prima linea sul fronte goriziano. Nei giorni precedenti il Natale 1915, un’esplosione ravvicinata gli provoca un forte trauma a livello psicologico (i biografi parlano di “nevrosi da trauma”).

Nell'immediato dopoguerra torna all'insegnamento, optando per le scuole serali, frequentate da operai, quel popolo semplice che egli tanto ama. Si avvicina intanto al misticismo orientale, in particolare allo yoga e al Buddismo. Dopo il 1922, anno di pubblicazione dei Canti anonimi, sua seconda opera in versi, Rebora non scriverà ufficialmente quasi più nulla per oltre vent’anni.

Lasciato l’insegnamento alle scuole tecniche, diventa attivista nel Gruppo d’Azione per le Scuole del Popolo, promosso da Adelaide Coari, pedagogista cattolica. Rebora comincia a tenere corsi e conferenze soprattutto in ambienti femminili, dedicandosi a un’opera di apostolato morale. Nel 1926 inizia un ciclo di incontri sul tema “La donna e la vita” e nel 1928, al Lyceum di Milano, propone una serie di incontri sulla storia delle religioni. Lo studio dei testi mistici e ascetici, la traduzione dei narratori russi, i contatti con gli oppressi lo accompagnano nel 1929 alla conversione religiosa e all’ingresso nel 1931 nell’ordine dei Rosminiani. Qui nel 1936 riceve l’ordinazione sacerdotale col segreto voto di patire e morire, scomparendo polverizzato nel divino amore. Trascorre il resto della sua vita nelle Case rosminiane di Domodossola e Stresa.

Il ritorno alla poesia, che sfocia nelle raccolte Via crucis (1955), Curriculum vitae (1955), Canti dell’infermità (1956) e Gesù il fedele (1956), avviene nel 1952 dopo una dolorosa malattia ed è tutto incentrato sul senso profondo della sua esperienza spirituale.

Muore a Stresa il primo novembre del 1957.

 

La definizione di “esistenzialista” che il fratello Piero attribuisce alla prima formazione di Clemente è da ritenersi embrionale e lontana da alcune cupe forme contemperane di problematismo irresolubile; quello di Rebora è, invece, il senso vivo dell’esistenziale umanità sofferente, intrisa di domande, di negazione, di attesa e di dolore, di ricerca e pessimismo, del perché del male, della guerra. Chi lo conobbe negli anni giovanili lo descrive “un estraneo, un solitario”, un anticonformista, sempre alla “ricerca di una luce di assolutezza ultraterrena” pronto a portare i pesi degli altri, a “eleggere la rinuncia e il distacco dal mondo del successo”, a “sostenere, illuminare, spiritualizzare coloro che gli affidavano”. Si scrive anche che la sua era una coscienza ribelle, un “irregolare”, un “refrattario” e un anarchico.3

Da uomo, Clemente Rebora ha vissuto le drammatiche esperienze degli anni della guerra riportando nei suoi versi tutta la sua e altrui sofferenza: fango, mari di fango e bora freddissima, e putrefazione fra incessanti cinici rombi violentissimi e soprattutto affiora dalle sue poesie l’incomprensione che subisce da parte dei civili e dei generali, e urla l’orrore inesprimibile e crescente descrivendo la guerra come un inferno.

O ferito laggiù nel valloncello/ tanto invocasti/ se tre compagni interi/ cadder per te che quasi più non eri. Tra melma e sangue/ tronco senza gambe/ e il tuo lamento ancora,/ pietà di noi rimasti/ a rantolarci e non ha fine l’ora,/ affretta l’agonia, tu puoi finire,/ e conforto ti sia/ nella demenza che non sa impazzire,/ mentre sosta il momento il sonno sul cervello,/ lasciaci in silenzio.4

Orrore della guerra e drammatica denuncia dell’assurdo stravolgimento del senso della vita che essa ha operato negli uomini. Infatti, l’unico viatico – “Viatico”, appunto è il titolo del componimento – che il poeta sa offrire al compagno morente è un invito al silenzio, perché meno straziante sia la loro situazione. Ma sotto l’esortazione, apparentemente impietosa, nel tono disperato di quell’invito, vibra la pietà del poeta per il compagno, che diventa il simbolo di tutti gli uomini coinvolti in una vicenda di insensata crudeltà.

Attività poetica, quella di Rebora, moralmente impegnata e di carattere prevalentemente autobiografico, espressa con linguaggio espressionistico che costituisce la cifra de “I Frammenti” dove balza il senso vivido dell’esistenziale, la duplice faccia dell’essere e quindi la sua ambiguità essenziale che coinvolge l’interiorità del poeta nelle alterne vicende dei sentimenti che coinvolgono la sua esistenza.

Dall'intensa nuvolaglia/ giù - brunita la corazza,/ con guizzi di lucido giallo,/ con suono che scoppia e si scaglia/ - piomba il turbine e scorrazza/ sul vento proteso a cavallo/ campi e ville, e dà battaglia;/ ma quand'urta una città/ si scàrdina in ogni maglia,/ s'inombra come un'occhiaia,/ e guizzi e suono e vento/ tramuta in ansietà/ d'affollate faccende in tormento: /e senza combattere ammazza.5

Dai versi affiora il grigiore e l’alienazione della vita contemporanea, la dissoluzione dei valori e dell’energia morale e, in conseguenza, il disagio esistenziale dell’uomo, e talvolta quella sensazione di “ansia” che spesso noi tutti viviamo.

L’ansia della vita che si manifesta come la paura di qualcosa che sta per arrivare; un qualsiasi evento che “sta per accadere” e che viene vissuto come una catastrofe. La maggiore delle nostre paure diviene così la causa del nostro male, perché proprio quando il turbine urta la città e perde la sua forza distruttrice tra i palazzi che ne ostacolano il normale procedere, allora accade che l’uomo preso dall’ansia, agisce in maniera inconsulta portando il risultato più tragico. Il turbine non distrugge, ma sono gli abitanti ad autodistruggersi a causa di una frenesia che ha come scintilla scatenante l’ansia, e che si trasforma tragicamente in panico.

La liricità dei Canti anonimi ruota, invece, attorno al problema morale inteso come vibrante capacità di comunicazione fraterna ed umana pietà. Nell’aggettivo anonimi si coglie il desiderio del poeta di considerare quelli, canti di tutti gli umani, sottoposti al comune male di vivere, di tutti gli umiliati e i sofferenti, senza nome. «Si accentua la sua tendenza», come scrive Elio Gioanola, «a scomparire come io per farsi voce, anonima appunto, di una situazione comune, quella della pena nella città moderna sempre più priva di umanità, e dell'ansia amorosa per qualcosa di diverso e più alto».

È una visione del mondo arida, avvelenata, impietosa in cui l’uomo è costretto all’isolamento ed alla violenza, defraudato degli antichi valori etici, smarrito nelle false apparenze, nelle finzioni superficiali, nelle vane glorie. L’umanità si fa vacua, la sua esistenza inutile, ancor peggio nociva, per se stessa e la terra intera. In questo immenso “diluvio morale” il poeta sta in attesa di una rivelazione che lo salvi: vigilo l'istante / con imminenza di attesa…

Scritta nel 1920 e posta in chiusura dei Canti anonimi, quasi a sigillare la produzione “laica” del poeta viene considerata universalmente il suo capolavoro.

Dall'immagine tesa

vigilo l'istante

con imminenza di attesa –

e non aspetto nessuno:

nell'ombra accesa

spio il campanello

che impercettibile spande

un polline di suono –

e non aspetto nessuno:

fra quattro mura

stupefatte di spazio

più che un deserto

non aspetto nessuno:

ma deve venire;

verrà, se resisto,

a sbocciare non visto,

verrà d'improvviso,

quando meno l'avverto:

verrà quasi perdono

di quanto fa morire,

verrà a farmi certo

del suo e mio tesoro,

verrà come ristoro

delle mie e sue pene,

verrà, forse già viene

il suo bisbiglio.

Chiara testimonianza di quell’ansia di verità e di fede che avrebbe presto portato il poeta alla conversione, giudicata uno degli esempi più alti della poesia religiosa contemporanea per la potente rappresentazione dell’umiltà di spirito di Rebora e della sua disponibilità ad aprirsi, dopo il tormento della ricerca, alla presenza divina. La triplice ripetizione ...e non aspetto nessuno… rivela il senso di vigile attesa e nello stesso tempo la natura non-umana di ciò che il poeta attende. È l’attesa di chi non sa ciò che cerca, eppure spia intorno ogni possibile segno perché sente che, se egli lascerà che si compia dentro di lui la Grazia, essa verrà quando sarà il momento giusto e lo farà sbocciare alla verità e alla gioia come il sole fa sbocciare un fiore.

 

Dopo un lungo silenzio, incalzato dalla malattia, Rebora, ormai don Clemente, torna alla poesia con il Curriculum vitae e i Canti dell'infermità, Il gran grido, Il Natale che indicano un orientamento sempre più deciso verso la trascendenza e la spiritualità. Liriche incentrate sul cupio dissolvi di San Paolo (v. I Lettera ai Filippesi: “desiderium habens dissolvi”) insieme a quella mai sopita ricerca spasmodica di una fusione tra il pensiero illuminista (di cui era imbevuta la sua prima educazione) e il personale cupio dissolvi.

Discorde la critica sulle ultime opere: a Contini, pure grande ammiratore del poeta, tanto da considerarlo una delle personalità più importanti dell'espressionismo europeo, gli ultimi versi paiono “meno decisivi”,6 mentre Raboni considera il lungo silenzio di Rebora come un ponte che congiunge “il poeta di prima al poeta di poi”, rinvenendo nelle ultime opere non un allentamento, ma una “tensione tutta verticale”.7

Evidente tuttavia appare il movimento ascensionale e trasfigurativo tra il primo gruppo di poesie (frammenti lirici, canti anonimi) e il secondo gruppo dove la vena poetica si nutre di nuovi ardori di moralità e si accompagna alla costante teologica raggiungendo una superiore armonia al punto che, invece di poesia, il lettore trova preghiera, estasi, mistica. Ciò non esclude che nella sua vita da sacerdote, Rebora non abbia vissuto anche “una notte di sensi” come le sofferenze fisiche e “una notte dello spirito”, pene spirituali, ossia quel vivere morendo e quel morire per non poter morire che è tutto proprio dei più grandi mistici.8

 

Giuseppina Rando

 

 

1 Quaderno Reboriano, 1960-61, Scheiwller, pp. 80-81.

2 Ivi, p. 75.

3 Cfr. Quaderno Reboriano, op. cit.

4 Da C. Rebora, Le poesie, Scheiwiller, 1961.

5 In C. Rebora, Le poesie (1913-1957), a cura di G. Mussini e V. Scheiwiller, Garzanti, Milano 1988.

6 G. Contini, Letteratura dell'Italia unita, Sansoni, Firenze 1968, p. 705.

7 G. Raboni, La modernità di Rebora, “Psychopathologia”, Edizioni del Moretto, Brescia 1985, cit. in C. Rebora, Le poesie (1913-1957), op. cit., p. 606.

8 Cfr. Letteratura Italiana. I contemporanei: Clemente Rebora di Artal Marzotti, Vol. I, Marzotati, Milano 1977, pp. 620-622.


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