Il rapporto tra Raffaello Sanzio e la Città di Urbino, non si esaurisce in un banale dato anagrafico. Le doti personali, innate dell’artista, molto probabilmente, non avrebbe trovato così felice e precoce espressione nel genio raffaellesco, se non avessero goduto dell’ambiente urbinate – autentico incubatore culturale – o comunque avrebbero prodotto qualcosa di diverso.
Raffaello nacque in Urbino nel 1483, all’indomani della morte di Federico da Montefeltro. Chiusa la parabola terrena del primo Duca non si concluse quella felice esperienza che fece della capitale del Montefeltro uno dei principali centri del primo Rinascimento italiano. Il successore Guidobaldo difatti, non solo continuò la politica culturale paterna, accogliendo artisti e letterati alla corte urbinate, ma indicò – quale successore – Francesco Maria della Rovere, figlio della sorella Giovanna e di Giovanni della Rovere, fratello di quel Giuliano che, salito al trono pontificio come Giulio II, fu il felice committente di Raffaello alle Stanze vaticane.
Sotto due aspetti il contesto urbinate fu particolarmente favorevole al giovanissimo Raffaello: quello famigliare e quello cittadino. L’uno e l’altro strettamente connessi. Innanzitutto egli era figlio d’arte. Il padre, Giovanni Santi, discreto pittore attivo alla e per la corte urbinate, sia in città che nel territorio, crebbe il figlio in bottega: il piccolo Raffaello dovette acquistare ben presto dimestichezza con pennelli e colori, ma anche con il lavoro di squadra e lo spirito imprenditoriale che caratterizzò poi l’organizzazione della sua equipe negli impegnativi lavori romani. Ma Giovanni Santi – pittore non molto eccellente, ma sì bene uomo di buon ingegno e atto a indirizzare i figlioli per quella buona via che a lui, per mala fortuna sua, non era stata mostra nella sua gioventù – come dice il Vasari, seppe indicare al figlio gli esempi da seguire ed indirizzarlo verso quei maestri che teneva in maggiore considerazione.
Tutto questo però divenne possibile grazie al contesto urbinate: il Palazzo Ducale, nella sua architettura, nelle opere che conteneva, non offriva semplicemente esempi eccezionali del sapere e dell’arte, ma li declinava in senso innovativo; non il meglio dell’arte passata, ma la ricerca in corso, la novità, la contemporaneità, rispetto alla quale, Raffaello, non poteva che non guardare avanti.
“Raffaello e gli amici di Urbino” (Galleria Nazionale delle Marche – Palazzo Ducale di Urbino, aperta fino al 19 gennaio 2020) è promossa ed organizzata dalla Galleria Nazionale delle Marche, diretta da Peter Aufreiter, ed è curata da Barbara Agosti e Silvia Ginzburg (catalogo Cento Di). «Indaga e racconta, per la prima volta in modo così compiuto», anticipa il Direttore Aufreiter, «il modo delle relazioni di Raffaello con un gruppo di artisti operosi a Urbino che accompagnarono, in dialogo ma da posizioni e con stature diverse, la sua transizione verso la maniera moderna e i suoi sviluppi stilistici durante la memorabile stagione romana».
Fondamentale il ruolo giocato da Pietro Perugino nella formazione e nel primo tratto dell’attività di Raffaello, qui letta in parallelo con quella dei più maturi concittadini Timoteo Vitti e Girolamo Genga, le ricerche dei quali ebbero a intersecarsi con il periodo fiorentino e con l’attività romana del Sanzio.
«È muovendo dal retroterra comune, dalle esperienze condivise, e dal confronto con le differenti reazioni di fronte ad analoghe sollecitazioni di cultura figurativa, che meglio risalta l’eccezionale ‘stacco’ compiuto dal giovane Raffello, e che si intendono caratteri e limiti del percorso degli artisti urbinati contemporanei a lui in quel momento più legati», sottolineano le Curatrici della mostra.
Nella nuova dimensione di scuola assunta dal lavoro di Raffaello durante il pontificato di Leone X stanno le premesse per i successivi svolgimenti della pittura moderna nel ducato urbinate, con l’emergere della personalità di Raffellino del Colle dalla costola di Giulio Romano e soprattutto con l’omaggio ai modelli formali e decorativi raffelleschi tentato da Genga all’indomani della morte di Raffaello ma in piena continuità con il suo magistero.
La mostra è dunque, un’occasione di misurare, in un contesto specifico di estrema rilevanza quale quello urbinate e nelle sue tappe maggiori, la grande trasformazione che coinvolse la cultura figurativa italiana nel passaggio tra Quattrocento e il Cinquecento. A queste scansioni corrispondono, nella riflessione storiografica costruita da Vasari e fatta propria dagli studi successivi, il momento iniziale dell’adesione dei pittori della fine del secolo XV alle prime novità di Leonardo, ovvero alla adozione di quella «dolcezza ne’ colori unita, che cominciò ad usare nelle cose sue il Francia bolognese e Pietro Perugino; et i popoli nel vederla corsero, come matti a quella bellezza nuova e più viva, parendo loro assolutamente che è non si potesse già mai far meglio».
M.P.F.