In principio/ era il bello,/ lampi di forzaenergia,/ luce e nulla in lotta/ mangiarsi e rotolare per vincere/ in un'esisteza che comunque è già./ Questo è ciò che dimentichi:/ siamo, perché siamo./ E non: dobbiamo essere, perché avremo.
(Da “Il vero senso della parola”
di Simone Savogin)
Un abbraccio di parole
Seguo reading e slam da anni, li trovo passerelle di moda, spaccati di umanità (ho seguito anche quelli al Carcere di Opera), specchietti del tempo, cartine tornasole di tendenze nel mostrarsi poetici, balconi di vere timidezze e cabaret di attori nati per essere lì, ma con gioia ogni volta trovo interessante affascinante delirante incontrare una nuova ugola ed un nuovo urlo di umanità, con cui entro in risonanza o in dissonanza, dipende (l'ammirazione, la sopresa, un po' d'invidia, l'infatuazione, il confronto, cose così...)! E alla presentazione di Scriverò finché avrò voce di Simone Savogin, sulla Piazza Vittoria di Pavia, dallo splendido Bacaro di Sam, mi sono sorpresa a sorprendermi ancora, con l'appuntarmi frasi, sensazioni legate a certe parole del poeta comasco, a sorridere d'intesa con gli amici presenti, fin quasi ad impazzire perchè mi ero persa un'espressione: “Perché/ l'ansia è un rumore-/ non cambia il domani, ma/ rovina l'oggi.”, che Savogin andava recitando, dalla sua vita.
Mi sono detta ha spessore questo, certo l'età lo aiuta, lo fa credere e sentire più vero, può a quaranta anni dire quello che ci chiedeva di dire Rainer Maria Rilke: «Tentate come un primo uomo sul mondo di dire quello che vedete e vivete e amate e perdete. Non scrivete poesie d'amore; evitate all'inizio le forme troppo correnti e abituali: sono esse le più difficili, ché occorre una grande e già matura forza a dar qualcosa di proprio dove si offrono in gran numero buone tradizioni...».
Ed ecco che gli scritti di Simone Savogin sono corse di suoni, frappè di vita, e tirafiato di parole se appena vuoi provare a leggertele tu a voce alta, perchè in un silenzio sono più difficili da rievocare, e lo possono essere solo a metà, perchè per il ritmo che portano e il contenuto arzigogolato sono necessariamente da sentirsi come slavine di note che entrano nelle orecchie per farsi minestrone di senso dopo, solo dopo, averle gridate all'eco. E rivolta all'amico Riccardo ho detto: sì, ssì! Sì, questo mi convince, sono poesie orali, da recita, da palcoscenico, ma contengono verità, suggellano verità, rimandano verità. Ed anch'io alla sua età voglio verità: “Fa fame il trovarsi inutili/ in inutili ritmi/ serrati da altri,/ gabbie invisibili/ che temiamo più di noi stessi,/ che le abbiamo create”. Perle che si estrapolano in un discorso lungo, in un elenco descrittivo, di allitterazioni, di suoni e di associazioni libere e forse inconsce, di giochi di parole e di suoni ritmati, alcune forse sono anche canzoni, temi diversi, l'amore e le sue variazioni, la guerra e la ricerca di una pace, la critica al mondo di cui siamo fatti. Savogin, doppiatore di videogiochi e cartoni animati nelle sue corse di parole mostra di aver capito: “Dispiace sapere di essere parte di sperequazioni inumane/ perpetrate da orde di tristi tutori/ di un ordine ordito dell'oro/ chi calcola, conta,/ chi crea è colore che cola su coltri di cancro/ e catrame tra trame di carte/ e l'arte d'arpia, si espande, è mia!.../ Non saremo mai salvi nel mondo/ se non salveremo il mondo da noi”. Certe parole sollevano, certe altre pesano: “Non abbiamo altro che noi stessi, da donare a chi ci regala vita. ...quanto fondamentale sia l'accogliere, l'accettare, l'imparare, piuttosto che il chiudere, il definire e il credersi”. E in una poesia dice a suo figlio, che non ha (se ne avesse avuto uno dice): “quando nudo e rachitico dimostri il mediocre che sei/. ..sii sempre ciò che sei, ma soprattutto sappi opinare solipsismi, perché/ prendersi sul serio è l'unica arma di chi non sa costruir talenti da doti.”, lasciando di stucco noi tutti, che credevamo di essere sul palco della prova della vita, ed invece siamo per terra con passi che lasciano impronte, e non ombre sullo schermo. Sono diversi gli scritti di amore di Savogin, e l'umano essere si può ritrovare in essi: “E allora chiediti se mai ci sia “grazie” migliore/ di quel senso di pace d'un sorriso che ti cola su spalla/ mentre abbraccio quel che vorresti essere tu./ Hai mai notato come “ti amo”/ suoni sempre troppo uguale a “salvami, ti prego?” E quanto sbagliato sia il “ti voglio bene” concesso,/ quanto il senso reale è “lotto, perché voglio tu sia”?... Piuttosto cerca di non essere altro che te stesso,/ combatti l'esser stronzo più che cesso”.
Al libro contribuisce l'illustratrice Martina Dirce Carcano, usando molto nero, inchiostro che scrive un disegno, una donna di spalle ed una donna che misura con un goniometro un cuore di uomo; donne in fila nella loro diversità. Un volto coperto da un cappello che diventa una maschera che nasconde, un altro ancora coperto da un cuscino per Mattino di diamante. Due mani si uniscono mischiandosi le macchie, il polsino nero cade su uno smalto della mano di lei per Imparare a conoscersi, a versi. Abiti appesi bianchi ed uno molto nero: “Ho steso i sogni,/ ma non asciugano mai/ colano sangue/ e piangono ancora./ Pare quasi che il sole/ non si voglia svegliare.” (I miei versi preferiti). Un uomo dal volto macchia con una barchetta a cappello chiude il ciclo dei disegni, come un viaggio ignoto in testa. A parte merita un commento il disegno di popolo, travolto nell'onda di un terremoto di vita, come questa migrazione contemporanea, un disegno spezzato sui bordi, corpi spezzati nel movimento di morte, braccia isolate che invocano aiuto spezzato, un nero sangue a colore: “Vogliamo ciò a cui diamo più valore, come se, nel mondo, uno non valesse/ sempre uno in mano a qualcun altro/ e ora, in mezzo a zero, è nulla chi va a fondo/ in urla mute e amori ormai di ieri”.
Diceva il latinista Ivano Dionigi, durante il Festival della Comunicazione di quest'anno: «La parola genera il pensiero, non è la custodia». E l'autore di Scriverò finché avrò voce, collaboratore dell'ANPI, lo sa: “Allora parlami di altre identità... E dimmi a cosa servono i confini/ se non a crederci e a non superarli/ hai sempre invidia e odi i tuoi vicini/ finché non scopri che è meglio imitarli./ E non chiamatela rivoluzione/ Proscrastinare un'ipocrisia/ Racchiusa nel concetto di nazione/ Un'idea che non ho mai fatto mia/ All'evoluzione senza padri e senza idee/ sta la rivoluzione senza patria e senza dei”.
Barbarah Guglielmana
Simone Savogin, Scriverò finché avrò voce
Illustrazioni di Martina Dirce Carcano
Tre60, pp. 144, € 12,90