C'è stato un tempo in cui la critica, un certo tipo di critica, anche cinematografica, aveva tra i suoi bersagli polemici, il decadentismo: intendendo per decadentismo non solo e non tanto l'insistenza a descrivere gli aspetti morbosi, degenerati, distruttivi, della vita e dalla società; ma soprattutto il compiacemento nel descriverli, come se quelle malattie fossero fonte di fascino per l'artista, fossero ammantate ai suoi occhi di una loro singolare bellezza.
Non è più tempo di condanne ideologiche, e dunque senza intenti di accusa dirò che una sensibilità decadente la si può ritrovare in autore cinematografico come Franco Maresco, che ha presentato al festival di Venezia un film documentario – La mafia non è più quella di una volta – che ha vinto il Premio Speciale della Giuria.
Le degenerazioni sulle quali il film si sofferma riguardano soprattutto la società siciliana, e in particolare palermitana. E, più che la mafia in se stessa, sono costituite dalla diffusa connivenza con la mafia, della società civile: attraverso l'omertà, il proclamato disprezzo nei confronti dei rappresentanti dello Stato, che siano carabinieri o giudici; o anche soltanto attraverso l'apatia e l'indifferenza.
L'occasione da cui scaturisce il racconto cinematografico sono le commemorazioni a Palermo per gli anniversari delle stragi di Capaci e di via d'Amelio, e dunque in onore dei giudici uccisi dalla mafia Falcone e Borsellino.
Ma ecco: i ragazzi che nel film vediamo sfilare per le strade di Palermo cantando e ballando, manifestano – dal punto di vista dell'autore – una leggerezza, ma anche una storditaggine, che ce li fa sembrare ignari della gravità, della tragicità, dell'evento commemorato.
E quando poi la cronaca si trasferisce al quartiere Zen di Palermo, il disappunto cede il passo a un senso di pena. Su un palcoscenico estemporaneo, di fronte a un gruppo sparuto di spettatori, la celebrazione in onore di Falcone e Borsellino consiste nell'esibizione di alcuni cantanti neomelodici, professionisti ma soprattutto dilettanti, perlopiù ostinatamente contrari a pronunciare in pubblico le chiare e semplici parole: “No alla mafia”.
Del resto l'organizzatore dell'evento, su incarico, si dice, del Comune di Palermo, è un tale Ciccio Mira, che, per sua ammissione, aveva già organizzato feste ed eventi anche su incarico di boss mafiosi.
E quando una canzone ha accenti troppo celebrativi nei confronti dei due giudici, e infastidisce uno degli abitanti del quartiene, prontamente l'organizzatore modifica la scaletta dei brani musicali, inserendo soltanto i classici più inoffensivi della canzone italiana.
Va detto che quel Ciccio Mira, un personaggio che avevamo già imparato bene a conoscere dal precedente film di Maresco, Belluscone, è una maschera memorabile. In fondo è una variazione del tipo di Don Abbondio, uno di coloro pronti ad ammettere che se il coraggio uno non ce l'ha non se lo può dare. E il suo comportamento, ma prima ancora, direi, il suo atteggiamento fisico, esprime un'inveterata, secolare remissività; la disponibilità a obbedire al padrone del momento: con la stessa imperturbabile pazienza con cui si fa riprendere e intervistare dall'autore del film, Maresco appunto, che non fa che rimproverargli la sua omertà, la sua ignoranza, i suoi tentativi maldestri di negare la natura criminale dei fatti e dei personaggi di cui racconta.
Dicevo che la festa al quartiere Zen suscita un senso di pena. E sembra pensarla allo stesso modo Letizia Battaglia, storica fotografa della lotta alla mafia e coscienza critica del film. Ma non è la stessa reazione di Maresco, il cui film è in fondo un ghigno insaziabile, come se la vista di tanta miseria umana e civile gli suscitasse una specie di ebbrezza, un feroce buon umore, una crudeltà quasi sadica, nell'atto di denunciarla.
Ma questa sua attrazione per ciò che è mostruoso, fa sì che il suo film sia ricco di personaggi a vario titolo degenerati, incisi con vigore.
Gianfranco Cercone
(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 14 settembre 2019
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