Tante sono ormai le immagini che, specialmente attraverso il cinema e la televisione, si sono depositate nella nostra memoria, che ormai non c'è forse tipo di ambiente o di personaggio che non ci sembri già di conoscere.
Ma se le immagini qualche volta ci aiutano effettivamente a fare esperienza di aspetti del mondo anche remoti da noi, tante volte invece ce ne allontanano: perché ricoprono la realtà di luoghi comuni, di mitologie, di semplificazioni, che possono dare soltanto l'illusione della conoscenza.
E si riceve allora un senso di vitalità da quei film che ci danno almeno l'impressione di restituirci l'aspetto “nudo”, autentico, delle cose e delle persone.
Ho provato questo tipo di emozione vedendo un film americano indipendente dedicato alla figura del cowboy. Si intitola: The rider – Il sogno di un cowboy; è diretto da una regista cinese che lavora negli Stati Uniti, Chloé Zhao; ha ottenuto il riconoscimento di “miglior film dell'anno”, per il 2018, dall'americana National Society of Film Critics, dopo essere stato presentato in vari festival internazionali tra cui il festival di Cannes e il Sundance.
È un film che ha la capacità di scrostare l'immagine del cowboy dalla mitologia che vi ha depositato il cinema western, senza per questo cadere nella tentazione di voler ribaltare i luoghi comuni, di voler creare una specie di anti-mitologia, ma soltanto attenendosi al profilo reale di un personaggio.
Così se è vero che il ragazzo protagonista del racconto, non è un eroe, è già in partenza uno sconfitto, perché, apprendiamo fin dall'inizio del film, ha subito una grave ferita alla testa in seguito a un incidente durante un rodeo, che probabilmente gli impedirà di partecipare ad altri rodei e di proseguire la propria carriera di allevatore di cavalli; se è uno sconfitto, in preda a quel “cupio dissolvi”, a quella specie di voluttà di autodistruzione, di chi vuole narcotizzare nel sonno o nella morte la propria amarezza, è anche vero che reagisce alla sconfitta mantenendo vivo il rapporto di amicizia – cameratesco, da compagni di bevute – con altri ragazzi cowboy anche loro; prendendosi cura della sorellina, affetta da un handicap; assistendo affettuosamente in ospedale un altro cowboy, reso invalido, tanto più gravemente di lui, da un altro incidente durante un rodeo; cercandosi un nuovo lavoro.
E tuttavia resta vivo nel suo cuore l'ideale di una vita da cowboy che, capiamo presto, in una società di rapporti radi e spesso ruvidi tra uomini, di solitudine nei vasti spazi delle praterie brulle, è un ideale che si basa sul rapporto speciale, privilegiato, tra l'uomo e i cavalli.
Le scene dedicate al rituale della domatura dei cavalli, una tecnica, quasi un'arte, di cui il protagonista, di etnia indiana, è un esperto, tramandata da generazioni di antenati, sono tra le più belle del film e sono illuminanti.
L'empatia che si stabilisce tra il cavaliere e il cavallo da domare, la paziente gradualità dei contatti fisici tra loro, l'alternanza di dolcezza e brutalità, al fondo un misto di tenerezza e di crudeltà, fanno sì che queste scene abbiano una tensione manifestamente erotica.
Così come, in altri momenti, quando il cavaliere deve separarsi per sempre dal suo cavallo, perché, irrimediabilmente azzoppato, deve essere abbattuto, si ha l'impressione di assistere alla scena di un melodramma, sia pure sobrio, virile, in cui si lotta per trattenere le lacrime.
La descrizione di una vita da cowboy, squallida e gloriosa, ingenua e sapiente; precaria, a volte tragica, ma anche intimamente appagante; proprio perché non è univoca, ma così contraddittoria e sfaccettata, risulta sempre autentica.
Gianfranco Cercone
(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 31 agosto 2019
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