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“La sacca del pastore” di Maria Lanciotti 
Ri-lettura di Roberto Zaccagnini
Immagine di copertina di Carla Nico
Immagine di copertina di Carla Nico 
18 Agosto 2019
 

Due scelte per una lettura

 

Ci sono due modi, per leggere un libro come La sacca del pastore di Maria Lanciotti – Narrativa contemporanea Sovera Multimedia, 2003. Il primo, consiste nell’appagare il solo senso estetico, godendo di una amabile letteratura e di una suggestiva costruzione dei periodi, senza lasciarsi coinvolgere oltre. Per questa strada il lettore esce illeso, pago di aver letto un buon libro, pronto magari ad affrontarne subito un altro. Il secondo, è per chi cerca rogna, tira a farsi male, s’immerge nelle emozioni, entra nelle viscere del protagonista e, volendo strafare, alternativamente anche in quelle dei personaggi secondari. Sono quei lettori che, guardando un film, s’attaccano ai braccioli della poltrona nella spasmodica attesa di veder morire il cattivo. Ma nessuno è proposto come cattivo, nel libro di Maria Lanciotti: ognuno si presenta da sé, col proprio turbinio di ricordi vomitati tutti d’un fiato, profluvio di rabbia o rassegnazione. Per ciò, anche i ricordi e i propositi più crudeli vengono accompagnati da tutto quel corredo di attenuanti, come ciascuno, per proprio conto e discarico, sa ben produrre. Non c’è un cattivo per il quale desiderare la morte, e se un morto c’è, esso è già estinto in cartellone, ed è forse quello che meno meritava di esserlo.

E non c’è un epilogo da attendere, ne La sacca del pastore; c’è tuttavia una serie di epiloghi, una successione di cerchi distinti, nessuno concentrico all’altro, ma che s’intersecano, contro ogni regola geometrica, in un solo punto. Per ogni cerchio che si chiude, è come riuscire a fare il punto in una esercitazione di topografia: il lettore ha la conferma di non essersi perduto, ma in quel momento un altro cerchio si apre, per una nuova storia che è la stessa da una diversa prospettiva, perciò un’altra storia, che si riconosce nella prima solo in quel punto d’intersezione, rappresentato dal personaggio principale che è l’unico a non parlare, che ha sempre parlato poco, e ora tace. Se al lettore piace ogni tanto accertare che non s’è perduto, è perché esiste questo rischio costante, dovuto alla descrizione di una quotidianità, nient’affatto pedantesca, ma sorprendente perché, con l’uso di tacere sulle cose ritenute ovvie, queste, ovvie, non sono più. E percorrendo queste ovvietà taciute, il lettore rischia di deragliare su binari propri, tanto più, se ha vissuto un ragionevole numero di anni; tanto più, se possiede la sufficiente dose di sensibilità; tanto più, se non s’è mai curato di nascondere il volto alle ventate gelide o alle cocenti vampate, che la vita riserva a chiunque conduca quella normale vita di relazioni umane, per le quali è stato creato. Il lettore, come un funambolo o un pilota ubriaco, si trova allora a ripercorrere i propri ricordi e a seguire quelli della narrazione, contemporaneamente o a fasi alterne, esercitandosi a riconoscere coincidenze e parallelismi, e magari ringraziando il cielo di non aver mai toccato certi picchi di tormento, o di non essersi mai fuso in certi corti circuiti mentali. Nella esposizione di interiora emozionali e psicologiche, srotolate sul piano della narrazione, si colgono significative frattaglie dal Dna inconfondibilmente maschile, e lì il lettore è indotto a tornare sulla copertina del libro, per ricordare che l’autore si chiami davvero Maria.


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