Forse la prima decisione che deve prendere un autore affrontando qualsiasi tema, è capire quale aspetto di quel tema indagare, approfondire; e quali aspetti lasciare opachi, indefiniti: essendo evidentemente improduttivo, irrealizzabile, specie al cinema, nella durata limitata di un film, condurre un'indagine “a tutto campo”, che sia su un personaggio o su un ambiente.
Così, volendo realizzare un film sulla vita del celebre ballerino russo Rudolf Nureyev, basato su una monumentale biografia di Julie Cavangh, credo che sia un merito quello dello sceneggiatore del film – il drammaturgo inglese David Hare – e del regista – l'attore Ralph Fiennes, qui alla sua terza regia cinematografica – un merito quello di avere attentamente circoscritto il soggetto del racconto.
Non soltanto della vita di Nureyev è considerata la fase giovanile, che si ferma all'esordio della sua carriera; ma di quel periodo sono messi in secondo piano, o come visti dall'esterno, gli aspetti più intimi della vita dell'artista: come la scoperta della propria creatività, o della propria sessualità “diversa”.
Se questi aspetti sono nel film comunque presenti, il centro focale del racconto è però l'urto tra l'artista e la società sovietica, comunista, degli anni Cinquanta, nella quale egli si era formato e che aveva consentito a lui, nato da una famiglia molto povera, l'educazione alla danza.
Tale conflitto è quello tra l'individualismo del personaggio, e il moralismo di una società che condanna chi si sottrae, trasgredisce, alla regole imposte alla collettività.
Così se Nureyev ama la solitudine, se ambisce al successo e alla ricchezza, se vuole rompere i codici della danza classica maschile, se ama indifferentemente donne e uomini, si scontra con una società dove, a quanto vediamo, l'individuo è tenuto a inserirsi nel gruppo; si deve lavorare, anche come artisti, non per l'affermazione di sé, ma per il bene, per l'istruzione, del popolo; le gerarchie e i codici vanno rigorosamente rispettati; e l'omosessualità, si intuisce perché non viene nemmeno nominata, non è certo vista di buon occhio.
Ora, tale conflitto esplode e diventa quantomai evidente, plastico, quando Nureyev, insieme alla Compagnia di Danza di Leningrado nella quale è riuscito a entrare, va in tournée a Parigi, nel 1961. E vede dispiegarsi sotto i propri occhi, una società, un mondo, che tutela quelle libertà che nella sua patria d'origine sono condannate.
Se è vero che la parte più emozionante, più avvincente, del film di Ralph Fiennes, è quella finale, quando nell'aeroporto di Parigi, mentre i funzionari sovietici vorrebbero rimpatriare forzosamente Nureyev, lui deve decidersi, e trovare il modo, di chiedere asilo politico in Francia (che poi, sappiamo, otterrà), è anche vero che è tutta la parte antecedente del film (anche se, a momenti, poteva sembrarci un po' ripetitiva, un po' esteriore) che ci aveva dato modo, sapientemente, di simpatizzare con le ragioni del protagonista, di condividere il suo desiderio di libertà: anche se era proprio quel desiderio che ce lo aveva reso a volte, scostante, antipatico.
Gianfranco Cercone
(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 29 giugno 2019
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