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Gianfranco Cercone. “L’angelo del crimine” di Luis Ortega
02 Giugno 2019
 

C’è una persistente tendenza, particolarmente nel cinema, basso o alto che sia, ad attribuire del fascino agli autori di atti criminali, proprio in forza dei crimini che commettono. A volte perché il crimine è visto come una forma di rivolta istintiva contro la società costituita; a volte, si intuisce, perché il crimine è una tentazione latente anche negli uomini onesti, perbene: e chi cede a quella tentazione può incarnare un desiderio tanto più prezioso perché proibito.

In questa tendenza a idealizzare la figura del criminale, sembrerebbe rientrare, almeno a un primo sguardo, il film del regista argentino Luis Ortega, intitolato qui in Italia: L’angelo del crimine, prodotto, anche, da Pedro Almodóvar, presentato l’anno scorso al festival di Cannes.

L’“angelo” a cui si riferisce il titolo del film, è un adolescente, ladro e assassino, con una gran capigliatura bionda, dal corpo di una bellezza efebica, un po’ femminile, che ha commesso i suoi misfatti nell’Argentina dei primi anni Settanta. (È una figura ispirata a un personaggio realmente esistito).

Per il suo aspetto fisico, per la grazia, la disinvoltura, con cui si muove nelle ville in cui si introduce per rubare, per gli scatti felini con cui talvolta impugna la pistola e spara, è una figura che sembra fatta apposta per unire fascino e criminalità, un fascino in questo caso anche erotico.

Ma se è vero che il film di Ortega è come ipnotizzato dalla figura del suo protagonista, non si risolve del tutto in un estetismo, in un culto della bellezza, che un moralista potrebbe definire deteriore, morboso. Perché poi non rinuncia a indagare le ragioni, i moventi, anche i più intimi, che spingono il ragazzo sulla strada dell’autodistruzione.

E scopre così che il crimine è, in questo caso, una forma di regressione, di infantilismo, di rifiuto della realtà. Non soltanto il giovane non sembra provare il minimo senso di colpa per le proprie vittime, ma non sembra nemmeno percepire il senso del pericolo, la paura per la propria incolumità. Certo della propria invulnerabilità – si immagina, del resto, investito da Dio – svaligia un negozio di armi o una gioielleria come se si trattasse soltanto di un formidabile gioco.

La realtà su cui chiude gli occhi è quella di un’Argentina su cui già incombe lo spettro della prossima dittatura militare; nella quale la polizia tortura abitualmente gli indagati, e in cui imperversa un maschilismo che, fra l’altro, istiga al disprezzo per gli omosessuali.

E il giovane criminale è omosessuale; si lega, per i suoi crimini, con un ragazzo dal quale è evidentemente attratto; senza mai però che quell’attrazione sfoci in un vero e proprio rapporto d’amore, disinibito e consapevole. Perché forse alle radici della regressione, c’è precisamente la fuga dal proprio desiderio, dalla propria sessualità, in un mondo che le è ostile.

Questa notevole intuizione psicologica costituisce il filo conduttore profondo del film, che ha forse però il difetto della ridondanza, di accumulare avvenimenti anche dopo che il ritratto del personaggio risulta già esauriente.

Va detto che il giovane criminale è impersonato molto efficacemente da Lorenzo Ferro.

 

Gianfranco Cercone

(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il giugno 2019
»»
QUI la scheda audio)


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