Nel 1917, a Padova, dove insegnava letteratura italiana all’università, il professor Bertacchi di Chiavenna scrive: Un maestro di vita, saggio leopardiano. Parte prima: Il poeta e la natura (Bologna, Nicola Zanichelli Editore), e lo dedica a Paul Hazard,1 storico francese, studioso di letteratura e di storia delle idee. Oltre allo studio dei Canti di Leopardi, Bertacchi, nello scrivere il saggio si giova, com’egli stesso dice, del ricco Zibaldone di pensieri che era uscito sul finire dell’Ottocento in otto volumi; aggiunge anche che il saggio è la prima parte soltanto, e «mira a presentare il poeta quale egli vive in cospetto della natura esteriore; ma che verrà studiato di poi nelle potenze di vita del suo più intimo essere e nella stessa parola di cui si valse ad esprimersi».
Il Saggio si apre con la Dedica a Paul Hazard; seguono un’Avvertenza e sei capitoli: - Influssi sereni dai paesaggi leopardiani - Sensazioni benefiche al poeta - Consensi tra il poeta e la natura esteriore - L’animismo leopardiano - Altri atteggiamenti del poeta nel cospetto della natura - L’infinito; ed infine le Note.
Indi Bertacchi analizza le poesie che compongono i Canti e scopre un Leopardi “sereno e men triste” quando si trova al cospetto della natura o vive nella natura.2 Diversamente dalle prose morali, dove Leopardi svolge la sua logica amara; dalle liriche di puro pensiero, ove è poeta filosofo, (Epistola al Pepoli, Palinodia, Nuovi credenti); dalle liriche dove parla diretto al nostro cuore, cantando se stesso o adombrandosi in canti di mera passione (Sogno, Consalvo, A se stesso, Aspasia); e dai canti civili (All’Italia, Monumento a Dante, Mai, Sorella Paolina, Vincitore nel pallone); «in tutte le altre liriche (L’infinito, Alla luna, Il sabato del villaggio, La quiete dopo la tempesta, La sera del dì di festa, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, Le ricordanze, ecc.) la poesia leopardiana», scrive Bertacchi, «ci offre un duplice aspetto: essa è poesia di anima, e, insieme poesia di natura», e quando Leopardi “canta all’aperto” ed effonde il canto dell’anima al cospetto della natura: «vive con la natura, o, almeno, nella natura. E questa natura, poi, è quasi sempre serena».3
Talor m’assido in solitaria parte,
Sovra un rialto, al margine d’un lago
Di taciturne piante incoronato.
Ivi, quando il meriggio in ciel si volve,
La sua tranquilla imago il Sol dipinge
Ed erba o foglia non si crolla al vento,
E non onda incresparsi, e non cicala
Strider, né batter penna augello in ramo,
Né farfalla ronzar, né voce o moto
Da presso né da lunge odi né vedi.
Tien quelle rive altissima quiete;
Ond’io quasi me stesso e il mondo obblio
Sedendo immoto; e già mi par che sciolte
Giaccian le membra mie, né spirto o senso
Più le commuova, e lor quiete antica
Co’ silenzi del loco si confonda.
(vv. 23-38, La vita solitaria, 1821)
«Considerando la beata quasi natia prontezza onde la parola di lui si fa paesaggio solatio o paesaggio lunare, non si può non pensare ch’ei vivamente sentisse quei puri aperti spettacoli: il che voleva dire goderne». Ecco allora: «I paesaggi campestri, le scene umili o grandi in cui si veniva a comporre l’anima del dolente poeta, sono sempre evocati nei loro aspetti più belli. E questa presenza della natura non è senza effetto per noi».
O graziosa luna, io mi rammento
Che, or volge l’anno, sovra questo colle
Io venia pien d’angoscia a rimirarti:
E tu pendevi allor su quella selva
Siccome or fai, che tutta la rischiari.
(vv. 1-5, Alla luna, 1819)
Dolce e chiara è la notte e senza vento
(v. 1, La sera del dì di festa, 1820)
Vaghe stelle dell’Orsa, io non credea
Tornare ancor per uso a contemplarvi
Sul paterno giardino scintillanti,
E ragionar con voi dalle finestre
Di questo albergo ove abitai fanciullo,
E delle gioie mie vidi la fine.
(vv. 1-6)
Quella loggia colà, volta agli estremi
Raggi del dì; queste dipinte mura,
Quei figurati armenti e il sol che nasce
Su romita campagna, agli ozi miei
Porser mille diletti…
(vv. 61-65, Le ricordanze, 1829)
«Egli il poeta, potrà bene, contro ogni serena bellezza, accampar le sue tristi fortune, o le innate sventure di tutto il genere umano, o l’arcano terribile dell’esistenza; noi potrem bene, come ei vuole, seguirlo nei suoi tristi argomenti, veder quella bella natura velarsi del dolore di lui, sentir vivo il contrasto che si agita fra quel poeta e quel mondo; ma, poi, non possiamo impedire che alcunché di quel bello, di quel sereno che egli evoca, si apprenda alle anime nostre, e resti in noi quasi a sé, quasi distinto dai sensi che il poeta vi associa, congiungendosi, anzi, dentro di noi con quante visioni di giorni dorati e di pure notti profonde vi si raccolser negli anni».
Voi, collinette e piagge,
Caduto lo splendor che all’occidente
Inargentava della notte il velo,
Orfane ancor gran tempo
Non resterete; che dall’altra parte
Tosto vedrete il cielo
Imbiancar novamente, e sorger l’alba;
Alla qual poscia seguitando il sole,
E folgorando intorno
Con sue possenti fiamme
Di lucidi torrenti
Inonderà con voi gli eterei campi.
(vv. 51-68, Il tramonto della luna, 1836)
«Giacomo dovè ricever dolcezza, pur fra tanti diuturni dolori, da quella natura che ei vede e sente e traduce in tal modo, e dalla quale notammo quanto sereni influssi derivino sempre a noi pure».
Tu le cure infelici e i fati indegni
Tu de’ mortali ascolta,
Vaga natura, e la favilla antica
Rendi allo spirto mio; se tu pur vivi
E se dei nostri affanni
Cosa veruna in ciel, se nell’aprica
Terra s’alberga o nell’equoreo seno
Pietosa no, ma spettatrice almeno.
(vv. 88-90, Alla Primavera, 1822)
Il saggio del professor Bertacchi scritto in bella prosa poetica, saltellante e sonante, toglie Leopardi da tutte quelle certezze e quelle abitudini di lettura che lo hanno sempre presentato totalmente pessimista, ‘triste e sfigato’,4 per restituirci il grande Poeta filosofo5 che accetta e ama la vita in toto tanto che la vorrebbe infinita, e lo dimostrano la vita attiva, l’eroica ‘nobil natura’ e la vasta geniale Opera. Bertacchi sembra avvertire una vera e propria dualità leopardiana:6 il poeta pessimista7 di cui non condivide “gli estremi risultamenti”; e il poeta “men triste e sereno” in rapporto con la natura nella quale trova serenità, attenzione e ascolto, e nella vita attiva sospensione dal dolore e giovamento.8
Il Leopardi “men triste e sereno” quando “canta all’aperto” ed “effonde il canto dell’anima al cospetto della natura” è il poeta filosofo della natura benigna, delle care illusioni, del naufragar m’è dolce nell’infinito;9 di tutto ciò, insomma, che fa da controcanto al poeta filosofo del vero, “l’arido vero”, e dell’infinita vanità del tutto. È il paradosso leopardiano.10
[…] Così tra questa
Immensità s’annega il pensier mio:
E ‘l naufragar m’è dolce in questo mare.
(vv. 13-15, L’Infinito, 1819)
[…] A noi ti vieta
il vero appena è giunto,
O caro immaginar; […]
(vv. 100-102, Ad Angelo Mai, 1820)
E fieramente mi si stringe il core,
A pensar come tutto al mondo passa,
E quasi orma non lascia. […]
(vv. 28-39, La sera del dì di festa, 1820)
[…] Io tutti
Della prima stagione i dolci inganni
Mancar già sento, e dileguar dagli occhi
Le dilettose immagini, che tanto
Amai, che sempre infino all’ora estrema
Mi fieno, a ricordar, bramate e piante.
(vv. 121-126, Al Conte Pepoli, 1826)
All’apparir del vero
Tu, misera, cadesti: e con la mano
La fredda morte ed una tomba ignuda
Mostravi di lontano.
(vv. 60-63, A Silvia, 1828)
Forse in qual forma, in quale
Stato che sia, dentro covile o cuna,
È funesto a chi nasce il dì natale.
(vv. 141-143, Canto notturno, 1830)
[…] Anzi felice estimo
La sorte mia. Due cose belle ha il mondo:
amore e morte. All’una il ciel mi guida
in sul fior dell’etá; nell’altro, assai
fortunato mi tengo.
(vv. 98-102, Consalvo, 1832?)
Fratelli, a un tempo stesso, Amore e Morte
ingenerò la sorte.
Cose quaggiù sì belle
altre il mondo non ha, non han le stelle.
(vv. 1-4, Amore e Morte, 1833?)
[…] Omai disprezza
Te, la natura, il brutto
Poter che, ascoso, a comun danno impera,
E l’infinita vanità del tutto.
(vv. 13-16, A se stesso, 1835)
Leopardi è maestro di vita, dice Bertacchi: “per questa serenità che da’ suoi canti proviene al senso e all’animo nostro”; “perché sull’esempio di sé ci avvezza a interrogare la natura ed a conviver con lei”; perché onora la vita ogni istante con la poesia, con le illusioni,11 e soprattutto con un “sì” alla vita, lungo un sentiero che vuole vincere il nulla.12
(«Per Leopardi è proprio il nulla in cui tutto finisce a preservare l’enigma. A salvaguardare l’“arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale”. Per l’appunto “mirabile” e “spaventoso” e, dunque, aperto ad ogni possibilità».13 – Valentina Cerqua, Nichilismo e critica delle illusioni in G. Leopardi, 2012, Università degli studi di Pisa).
E La Ginestra o il fiore del deserto è il punto più alto del pensiero poetante di Leopardi.
È il canto della ritrovata unità di cuore e ragione; è la visione della nullità di tutte le cose e allo stesso tempo è canto che apre il cuore e ravviva l’amore dell’esistenza.
Di fronte alla terrificante visione del vero, la ‘nobil natura’ non distoglie lo sguardo, ma con dignità e misura eleva il proprio canto d’amor fati, spronando tutti gli uomini a stringersi “in social catena” così da non accrescere il dolore che è già per tutti vivere.
Qui su l’arida schiena
Del formidabil monte
Sterminator Vesevo
La qual null’altro allegra arbor né fiore,
Tuoi cespi solitari intorno spargi,
Odorata ginestra,
Contenta dei deserti. […]
(vv. 1-7)
[…] al cielo
Di dolcissimo odor mandi un profumo,
Che il deserto consola.
(vv. 35-35)
Nobil natura è quella
Che a sollevar s’ardisce
Gl’occhi mortali incontra
Al comun fato, e che con franca lingua,
Nulla al ver detraendo,
Confessa il mal che ci fu dato in sorte,
E il basso stato e frale.
(vv. 111-117)
E tu, lenta ginestra,
Che di selve odorate
Queste campagne dispogliate adorni,
Anche tu presto alla crudel possanza
Soccomberai del sotterraneo foco,
Che ritornando al loco
Già noto, stenderai l’avaro lembo
Su tue molli foreste. E piegherai
Sotto il fascio mortal non renitente
Il tuo capo innocente:
Ma non piegato insino allora indarno
Codardamente supplicando innanzi
Al futuro oppressor; ma non eretto
Con forsennato orgoglio inver le stelle,
Né sul deserto, dove
E la sede e i natali
Non per voler ma per fortuna avesti;
Ma più saggia, ma tanto
Meno inferma dell’uom, quanto le frali
Tue stirpi non credesti
O dal fato o da te fatte immortali.
(vv. 297-317, La Ginestra, o Il fiore del deserto, 1836)
Il Leopardi bertacchiano è il passero solitario:
[…] alla montagna
Cantando vai finché non more il giorno.
Al grande Poeta e illustre Professor Giovanni Bertacchi di Chiavenna nel 150° della nascita,
INVIO
Lassù, dove la patria
terra al piè delle rupi accoglie i morti,
inno del mio pensiero, eco dell’anima,
l’aura pura del verno a voi ti porti.
Tu sai la croce povera
che il pio mirto consola e il tempo rode;
ella sta di quel Caro in su le spoglie,
ai vecchi affetti miei santa custode.
Là posa: accanto al tumulo
un avvenir d’amore, inno, ti attende;
tu rivivrai lassù casta memoria
del benedetto asil ne le vicende.
Diventerai la lacrima
che dal balzo imminente assidua stilla;
diventerai la neve, il manto vergine
che a la luna de l’erma alpe scintilla:
e quando, a marzo, il tepido
soffio s’innovi e il giovinetto sole,
ti svolgerai dal sen de la materia
col romito odorar de le viole.
Così dove il silenzio
funebre regna e il triste oblio divino,
oh, vita nella morte! ivi eternandosi
compie l’inno il suo voto e il suo destino.
(da “Saluti di lontano”, Il Canzoniere delle Alpi, 1895)
Luciano Angelini
1 Hazard (1878-1944) ha dato un impulso fondamentale alla rilettura e alla valorizzazione moderna di alcuni grandi autori italiani dell’Ottocento tra i quali Giacomo Leopardi, da lui definito “Il poeta del dolore”.
2 E ‘l naufragar m’è dolce in questo mare. (v. 15, L’Infinito, 1819).
3 Il concetto di Natura in Leopardi muta con l’evolvere del pensiero filosofico: è ‘madre benigna’, in quanto dà all’uomo la capacità immaginativa ovvero “le care illusioni”; è ‘ingannevole e matrigna’, gli fornisce lo strumento che toglie il velo alla felicità: la ragione che smascherando “i cari inganni” fa apparire l’“arido vero”; è indifferente, un perpetuo circuito di produzione e di distruzione; è essa stessa ‘vittima’ come ogni cosa di quel “Poter che, ascoso, a comun danno impera”.
Da L’infinito (v. 1): Sempre caro mi fu quest’ermo colle.
Da A Silvia (vv. 36-39): O natura, o natura/ Perché non rendi poi/ Quel che prometti allor, perché di tanto/ Inganni i figli tuoi?
Da Palinodia al marchese Gino Capponi (vv. 169-171): La natura crudel, fanciullo invitto,/ Il suo capriccio adempie, e senza posa/ Distruggendo e formando si trastulla.
4 La critica dominante del tempo, infatti, pur riconoscendo la grandezza della poesia leopardiana, tendeva a sminuirne il pensiero; eppure la caratteristica principale della poesia di Leopardi e che la rende così unica e geniale è proprio quella d’essere pensiero poetante o “pensiero che si fa canto” come dice Giovanni Bertacchi. Così Benedetto Croce, filosofo idealista, attribuiva alla produzione del Poeta la caratteristica di essere il risultato di un “ingorgo sentimentale” e di una “vita strozzata” e rifiutava al pensiero leopardiano lo statuto filosofico sulla base del carattere sentimentale e soggettivo del pessimismo.
5 In questo specolar gli ozi traendo/ Verrò: che conosciuto, ancor che tristo,/ Ha suoi diletti il vero. (vv. 150-153, Al conte Carlo Pepoli).
6 Idea che sarà approfondita da Giovanni Gentile in un articolo del 1919, “Prosa e poesia nel Leopardi”: «Il Leopardi, pessimista di filosofia, e quasi alla superficie, fu invece ottimista di cuore, e nel profondo dell’animo». Il testo fu pubblicato prima nel Messaggero della domenica, febbraio e marzo 1919, e poi nel volume: Giovanni Gentile, Manzoni e Leopardi (Milano, 1928, p. 173-195).
7 La questione del pessimismo o dell’ottimismo leopardiano è un’invenzione della critica. Leopardi è realista, e quando dice “tutto è male”, non si tratta di pessimismo, ma di verità.
8 Bertacchi è ‘il poeta della Natura’, dove ogni cosa dissolvendosi ritorna; Leopardi è il poeta del Nulla: dal nulla tutto proviene e nel nulla tutto ritorna.
[…] a noi presso la culla/ Immoto siede, e su la tomba, il nulla. (vv. 74-75, Ad Angelo Mai, 1820).
9 «Quindi il piacere infinito, che non si può trovare nella realtà, si trova nella immaginazione, dalla quale derivano la speranza, le illusioni e via dicendo» (p. 120, G. Bertacchi, Un maestro di vita).
10 «Il paradosso leopardiano sta nella tensione tra il discorso razionale – che dice il vero, e che lo fa sentire filosofo – e la sua volontà di restare fino all’ultimo poeta, coltivando l’illusione» (Leopardi ottimista, un mito del Novecento, relazione di Stéphanie Lanfranchi, École Normale Superieure di Lione, 2010).
11 L’illusione per Leopardi non rispecchia la verità ma offre un vero piacere, una vera consolazione, e anche di più: conduce ad azioni eroiche e morali. Per Leopardi, l’illusione è senz’altro quello per cui vale la pena vivere. L’illusione fa sperare, l’illusione fa agire. E la più bella, la più alta delle illusioni è senz’altro la poesia. «Il più solido piacer di questa vita è il piacer vano delle illusioni». (Zibaldone).
12 «Nonostante la verità del diventar altro, che è il diventar nulla, e da nulla, e che conduce inevitabilmente ad affermare che il nulla è il principio di tutte le cose, Leopardi continua ad amare la Poesia o l’Illusione. La sua ragione svela il dolore del mondo, ma il suo cuore è incapace di cancellare le speranze e gli ameni inganni della giovinezza. È il paradosso leopardiano o dell’uomo vivere la tensione tra verità e illusione. Leopardi come il bambino affronta il divenire del mondo come il gioco senza scopo che esso è, a imitazione della natura, e con amore e intrepidezza gioiosa vola sulle ali della fantasia e dell’illusorietà sopra la tragica realtà del mondo. Tutto è nulla; tutto ciò che esiste è nihil negativum perché è un effimero emergere dalla assoluta negatività del nulla. Il divenire è un gioco senza perché». (M. Claudia Sguario, Nietzsche, Leopardi e il “mondo come gioco”).
13 «Tempo verrà, che esso universo, e la natura medesima, sarà spenta. E nel modo che di grandissimi regni ed imperi umani, e loro meravigliosi moti, che furono famosissimi in altre età, non resta oggi segno né fama alcuna; parimenti del mondo intero, e delle infinite vicende e calamità delle cose create, non rimarrà pure un vestigio; ma un silenzio nudo, e una quiete altissima, empieranno lo spazio immenso. Così questo arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale, innanzi di essere dichiarato né inteso, si dileguerà e perderassi». (Leopardi, “Canto del gallo silvestre”, in Operette morali).