Una lezione di Storia. Ma anche di vita e di etica, è stata quella che Giovanni Marzona, partigiano della Brigata Osoppo in Carnia, ha regalato nei giorni scorsi agli studenti del CIA “A. Manzoni”, il Civico Centro di Istruzione per l’Adulto e l’Adolescente situato a Milano, in via Deledda 11.
Novantunenne in forma perfetta, tanto da restare per due ore in piedi a parlare senza nemmeno accennare a sedersi, Giovanni ha raccontato di come, appena quindicenne, diventò antifascista per i soprusi che i bambini appartenenti alle famiglie modeste come la sua dovevano sopportare a scuola, dove i figli dei notabili del partito non venivano mai interrogati se non lo volevano ed erano tenuti sul palmo della mano dai maestri che li promuovevano senza batter ciglio. Lui, invece, fu bocciato perché al gerarca che era venuto in visita e gli aveva chiesto di cantare una canzone, aveva intonato quella degli alpini.
Quei ragazzi erano i “bulli” del tempo, a loro tutto era permesso. Come ai loro padri, del resto, che quando il papà di Giovanni si rifiutò di consegnare la fede per la campagna dell’oro alla patria, lo legarono alla sedia e gli fecero bere il famigerato olio di ricino. Il che, non significava solo dissenteria, ma anche impossibilità di alzarsi dal letto e magari l’eventualità di finire all’ospedale. In cambio di quell’anello dall’incredibile valore affettivo, adesso Giovanni mostra agli studenti il cerchio di ferro che era stato consegnato al posto di quell’oro che sarebbe servito a comprare un fucile e a mandare suo fratello in guerra.
Il destino per i bambini come lui era segnato fin dall’inizio: figlio della lupa, balilla, giovane fascista, milite e infine soldato, con buona probabilità di morire al fronte. A tutto questo Giovanni si oppose, e nell’inverno del 1943-44 cominciò a tenere i collegamenti fra le famiglie e gli ex soldati che si erano rifiutati di aderire alla RSI, rifugiandosi sulle montagne.
Quando gli fu chiesto di diventare staffetta, Giovanni rispose che doveva chiederlo ai genitori… Poi giurò fedeltà alla Resistenza e prese il nome di Alfa, quello di un partigiano che era stato appena ucciso. Era un bocia, perciò non gli diedero un fucile ma solo una piccola rivoltella da donna, con la raccomandazione di usarla nel caso rischiasse di essere preso prigioniero. A un altro ragazzino come lui che non aveva avuto il coraggio di uccidersi, i tedeschi avevano tolto il cuoio capelluto, trascinando poi il cadavere per le strade del paese: si chiamava Mammolo, come il nano di Biancaneve.
Quando i partigiani liberarono la Carnia, proclamarono la Repubblica. Dove, per la prima volta votarono le donne, il cui ruolo Giovanni sottolinea: quando dalla pianura arrivava da mangiare, erano loro a portarlo ai partigiani sui monti; ed erano loro a curarli di nascosto, nelle cantine dell’ospedale, quando vi giungevano feriti.
In pochi sanno che la Carnia era inserita in territorio germanico, fuori dai confini della RSI. E che, contro i partigiani, furono i cosacchi a combattere. Erano 40.000, filozaristi, mercenari e agguerritissimi, perché i tedeschi, in caso di vittoria, gli avevano promesso quella terra che avevano già battezzato Cosacchia Land.
Un giorno Giovanni fu colpito di striscio, dopo aver imboccato un sentiero sbagliato perché aveva fretta. Un errore che gli era capitato anche un’altra volta e che era costato la vita a un partigiano: era morto urlando, quel poveretto, e lui non se lo perdona ancora adesso. Per fortuna, la ferita non era grave e Giovanni riuscì a raggiungere i compagni, ma quando si ammalò di pellagra dovettero portarlo in paese. Sua madre, che se lo ritrovò davanti nella stalla, magro e malmesso, quasi non lo riconobbe. Lo lavò, gli cambiò i vestiti che erano coperti di pidocchi e ai due soldati cosacchi che vivevano nella loro abitazione (“facendo i loro porci comodi”) disse che era appena tornato da un lavoro con la Todt. Sembrava tutto a posto, ma una volta lui si lasciò sfuggire una parola di troppo con un cosacco che pareva amichevole e così venne imprigionato come sospetto partigiano. Durante l’interrogatorio negò tutto e, reputandolo inoffensivo per la sua giovane età, le autorità lo rilasciarono. Ma i due cosacchi che stavano con la famiglia di Giovanni non ne erano convinti e così, una sera, rientrati a casa palesemente ubriachi, cercarono di ucciderlo. Scappato nella casa vicina, venne nascosto nella cassetta della legna sotto la stufa, che non fu controllata: il giorno dopo lui risaliva sulle Alpi, dove sarebbe rimasto fino al termine del conflitto.
Gli studenti del CIA “A. Manzoni” che affollano la biblioteca ascoltano con attenzione queste avventure che sembrano uscite da un film, e a loro Giovanni raccomanda di interessarsi alla realtà, di farsi un’opinione – quale che sia – su quello che li circonda, perché sono il pensiero e i libri a rendere libere le persone.
Alla fine, un applauso saluta le ultime parole del partigiano Alfa che, senza alcuna retorica ma con vera passione, ha narrato ciò che capitò a lui e a molti altri. D’ora in poi, qualcuno di quei ragazzi che adesso lo guarda con simpatia, potrà ripetere ciò che lui, oggi, ha raccontato. E grazie a questo, la storia di Giovanni continuerà per sempre a vivere.
Mauro Raimondi