La persona indicata come Una bomber, il misterioso attentatore che da anni insanguina e terrorizza il Nord Est, che si diceva inchiodato da elementi incontrovertibili, a quanto pare non è poi così sicuro che sia lui. Gli stessi magistrati hanno fatto una clamorosa marcia indietro, e ora viene fuori che mancando la prova, un perito avrebbe pensato bene di fabbricarla. Intanto l’accusato è stato dato in pasto all’opinione pubblica come “colpevole”; gli è stata risparmiata la preventiva carcerazione, ma è stato licenziato. Per tutta la vita sarà accompagnato da un alone di pesante sospetto. Viene in mente un passaggio de L’ile des pingouins, un bel racconto di Anatole France, autore non a caso, a suo tempo, messo all’Indice dal Vaticano: «Ditemi, Panther, fra le prove, alcune sono false?». «Inventate, certo». «È quello che volevo dire. Se alcune sono inventate, tanto meglio! Le testimonianze false valgono più di quelle vere, perché vengono create espressamente per le necessità della causa, su ordinazione e su misura, e quindi risultano esatte e particolareggiate. Sono preferibili perché trasportano le menti in un mondo ideale e le distraggono dalla realtà, che, in questo mondo, purtroppo non è mai senza ombre…». Greatauk, duca di Skull, confida a al generale Panther: «Questo processo è un capolavoro, è fatto di niente».
Certi, i magistrati, al punto di aver assicurato a giornalisti avidi di scoop che ormai era fatta: il caso risolto. A pochi giorni dalla sconcertante tragedia di Erba. Già dimenticata, cancellata, la vergogna (e l’infamia) di aver additato come colpevole della strage un tunisino che aveva tutti i requisiti per essere il colpevole “giusto”: extracomunitario, precedenti penali… Vittima anche lui, invece; i colpevoli veri, come ora sappiamo, sono persone “perbene”, italianissimi.
Di casi simili se ne possono fare decine, centinaia: Sud e Nord d’Italia, grandi città o provincia, non c’è differenza: l’Italia è unita, in questo. Centinaia di colpevoli “al di là di ogni ragionevole dubbio”, e che invece colpevoli non sono. Sarebbe sufficiente coltivarlo, qualche dubbio, per rendersi conto dell’innocenza, dell’estraneità.
«Il magistrato assunse aria di greve pensamento, e poi disse: “Sapete che cosa penso? Che casuale per quanto si voglia, l’uomo della Volvo entrò nell’ufficio del capostazione, vide quel dipinto, se ne invaghì a colpo di fulmine, fece fuori i due e se lo portò via”. Questore e colonnello si scambiarono perplesso e ironico sguardo. “È un personaggio, quello della Volvo, per cui mi è venuta una immediata affezione. Difficilmente sbaglio, nelle mie intuizioni. Tenetemelo bene al fresco”. Li congedò… Uscendo il questore disse: “Dio mio!”; e il colonnello: “Terrificante!”». Il fatto è che in Una storia semplice, l’ultimo racconto di Leonardo Sciascia, ci sono, almeno, un questore che sospira “Dio mio!”, e un colonnello dei carabinieri che inveisce: “Terrificante!”. Nella pratica quotidiana, è sempre più raro trovarne. Gli effetti sono sotto gli occhi di tutti.
È una limitazione alla libertà di tutti che i magistrati non parlino delle inchieste che sono loro affidate? È una limitazione alla libertà di tutti che sui giornali non siano pubblicati i nomi dei magistrati, e ci si limiti a riferire: “Procura di…”? È una limitazione alla libertà di tutti se giornali e giornalisti invece di fare i “processi” si limitassero più prosaicamente a seguirli, quando si celebrano, cosa che non si fa quasi mai? È una limitazione alla libertà di tutti chiedere che i processi non siano celebrati negli studi di trasmissioni televisive, ma solo e unicamente nelle aule di tribunale? Sarebbe molto interessante conoscere cosa hanno da dire Associazione Nazionale dei Magistrati, Federazione Nazionale della Stampa e i vari organismi di indirizzo e di controllo. Scommettiamo che nessuno dirà nulla?
Gualtiero Vecellio
(da Notizie radicali, 18/01/2007)