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Giuseppina Rando. Realtà e umanità, arte e memoria nell’opera di Vincenzo Consolo
16 Aprile 2019
 

Vincenzo Consolo (Sant’Agata di Militello, 1933 – Milano, 2012), figura atipica della narrativa contemporanea, come pochi altri, ha reso esplicita la propria poetica, intessuta di memoria storica e di ricerca linguistica.

Lo sguardo dello scrittore, sempre attratto dal presente, racconta il passato, cerca ragioni e sentimenti e, mentre vive lontano dalla terra natìa, a Milano, rievoca continuamente la sua Sicilia chiamandola “la nostra Itaca d’oggi, la matrigna nera della nostra memoria cancellata, della bellezza e della poesia oltraggiate”.

Figura atipica quella di Consolo, ma che ben si può collocare in quella letteratura che coniuga arte e memoria. La sincerità, il suo modo di dire e di scrivere disegnano un letterato che sa mettere insieme realtà e coscienza, società e individuo.

Atipica, se vogliamo, anche l’amicizia che lo legò al conterraneo poeta Lucio Piccolo di Calanovella, sodalizio evocato da Leonardo Sciascia, acuto osservatore dei comportamenti umani, quando in una nota così scrive: «Tutto, in com’è Consolo e in com’era Piccolo, li destinava a respingersi reciprocamente: l’età, l’estrazione sociale, la rabbia civile dell’uno e la suprema indifferenza dell’altro; eppure si era stabilita tra loro una inconfessata simpatia, una solidarietà apparentemente svagata ma in effetti attenta e premurosa, una bizzarra e bizzosa affezione. Il fatto è che tra loro c’era una segreta, sottile affinità: la sconfinata facoltà visionaria di entrambi, la capacità di fare esplodere, attraverso lo strumento linguistico, ogni dato della realtà in fantasia. Che poi lo strumento avesse la peculiarità della classe cui ciascuno apparteneva, di “degnificazione” per Piccolo, di “indegnificazione” per Consolo, non toglie che si trovassero, ai due estremi del barocco, vicini».1

La stessa poetica di Consolo si distanzia, e non poco, da quella di Lucio Piccolo, legata ad una oggettività crepuscolare e surreale tanto che il Nostro lo definisce “personalità eccentrica”, fantasiosa, uomo “esotico”, personaggio “gattopardesco” di un mondo morto, trapassato.

Consolo, invece, in tutta la sua produzione letteraria tiene presente il rapporto “io-mondo”, “io-realtà” ed opera una scelta stilistica ardua che fa della sua scrittura una prosa di tipo intellettualistico, “ricca di modulazioni barocche” e di non facile comprensione per la maggior parte dei lettori.

Si direbbe una prosa d’arte applicata ad un contenuto popolare, umano, reale.

Consolo scrive sulla realtà, ma non certo per cambiarla (come si spera da sempre), ma per portarla sul piano della coscienza, per destare nel lettore curiosità e interesse.

Ma quale curiosità e quale interesse? E soprattutto in chi?

Quale è il rapporto lega Consolo al lettore del nostro tempo?

Egli conosce bene la distanza smisurata che li divide e dà una risposta convincente: “oggi la cavea del teatro è vuota e lo scrittore non riesce più a stabilire un rapporto coi lettori”.

Altrove intanto si sono apparecchiati altri teatri, immense platee mediatiche in cui falsi scrittori, furbi imbonitori, divertono e consolano. Non siamo più lì, certo, nello spazio letterario, ma in quello mercantile, della produzione e del consumo della merce più deteriore, se non immorale.

Allo scrittore non restano dunque che due soluzioni: l'afasia (il silenzio dello scrittore Gioacchino Martinez de Lo spasimo di Palermo)2 o lo scrivere in forma poematica, cioè spostare la prosa della narrazione verso la forma poetica. I lettori allora certo saranno pochi, ma veri.

E pochi, in verità, sono i lettori di Consolo che non ha mai goduto di successo popolare, quello che fa scalare la classifica dei best sellers o che si traduce in fiction.

Consolo resterà nella letteratura, come uno dei pochi che, nell’era della post-avanguardia e della tecnicizzazione del linguaggio, scelse la via più difficile, quella della sperimentazione della parola, del preziosismo e della contaminazione, della lingua intrisa di termini lessicali di ordine aulico, lirico, dialettale, anche se sempre con raffinata potenza espressiva. La sua è una continua ricerca di originalità linguistica che, in parte, deriva dalla personale ambizione di differenziarsi nell’affollato panorama letterario italiano.

[…] Ho voluto creare una lingua che esprimesse una ribellione totale alla storia ed ai suoi esiti… Ma non è dialetto. È l'immissione nel codice linguistico nazionale di un materiale che non era registrato, è l'innesto di vocaboli che sono stati espulsi e dimenticati [...]. Io cercavo di salvare le parole per salvare i sentimenti che le parole esprimono, per salvare una certa Storia.

E la Storia, come si diceva, costituisce il cardine di tutta la produzione letteraria di Consolo il cui concetto di “storia” rimanda ad uno scritto di Carlo Marx sulle classi sociali: «La classe possidente e la classe del proletariato rappresentano la stessa estraniazione umana. Ma la prima classe si sente completamente a suo agio… sa che essa costituisce la propria potenza ed ha in essa la parvenza di una parvenza umana; la seconda, in tale estraniazione, si sente invece annientata, vede in essa la sua impotenza e comprende in essa la realtà di una – la sua – esistenza non umana».3

C’è, in particolare, una pagina ne Il sorriso dell’ignoto marinaio che collega la suddetta citazione con il pensiero dell’autore, proprio quando si racconta della rivolta contadina di Alcàra Li Fusi, contro i signorotti del territorio, al tempo della spedizione dei Mille. Il Barone Mandralisca, protagonista del romanzo, di idee liberali, lontano in quel momento dall’azione politica, avendo assistito, casualmente alla strage dei contadini così si esprime: «esiste una storia dei vincitori e una dei vinti, scritta la prima, e mai scritta la seconda e che in questa drammatica dicotomia, perenne e a prima vista irresolubile, consiste precisamente la tragedia della Storia».4

La Storia, in Consolo, si fa letteratura perché, spiega, in un’intervista: «…una letteratura senza memoria è una falsa letteratura. La memoria è memoria storica, oltre che memoria personale. La mia memoria è memoria linguistica e storica […] la mia ricerca è sulla memoria storica. La mia sperimentazione consiste nell’organizzare la prosa in forma metrica […] è memoria scritta… ma deve essere pronunciata... la parola deve essere “sentita” perché ubbidisce ad una sua musicalità ad un suo ritmo… Il contenuto è quasi sempre storico… La Storia è importante perché permette, a me e ad altri che hanno usato nelle loro opere il contesto storico, (il nostro archetipo naturale è il Manzoni) di operare quella famosa metafora: parlare di eventi, di fatti storici per significare il presente, per cercare di capire il presente».

Da tutti i suoi scritti, in verità, ciò che istantaneamente emerge è il male di vivere, il disagio esistenziale dell’intellettuale che cerca di spiegare i meccanismi della grande Storia snaturante e disumana, ma non ci riesce.

Ne viene fuori una figura solitaria, un prosatore che non appartiene ad una scuola, ad un gruppo. Ne viene fuori la voce solitaria dell’eremita de L’ulivo e l’olivastro,5 dove l’autore o il suo alter ego rivive le vicende del mito, rivede i luoghi dell’antica armonia, conosce figure, racconti, linguaggi “di oscura e chiusa verità”. Lo scrittore appare avvolto da una straniante solitudine.

Ma ad una giornalista che gli chiede: “Non ha paura di sentirsi solo?”

Consolo risponde con artificio: Quando si scrive si è assolutamente soli, si è soli con le proprie parole. Io scrivo ancora sulla carta, sono di fronte alla carta, ad un foglio bianco. Quelli che ci accompagnano sono i segni che ci portiamo dietro, sono i segni della storia, ma anche i segni letterari… io credo che noi non scriviamo sul vuoto, sul nulla, noi scriviamo sulla memoria letteraria. Io credo che la vera letteratura sia la letteratura palinsestica, cioè lo scrivere su altre scritture, ci muoviamo sulla scia di scrittori importanti che ci hanno lasciato i loro segni.

È una velata confessione ed insieme un atto di fede nella scrittura.

In quei segni che accompagnano lo scrittore c’è gran parte del suo vissuto, ancorato ad una situazione storica, in quei segni si riconosce un malessere esistenziale personale, una segreta solitudine.

E un senso di solitudine, scrive Giuseppe Amoroso, s’avverte soprattutto nella pubblicazione postuma La mia isola è La Vegas che raccoglie racconti inediti o già apparsi in quotidiani e riviste tra il 1957 e il 2011.6 Nel libro, nota Amoroso,7 si trasmette un sotteso contrappunto di cantilena da cui prendono avvio vicende drammatiche, trascinate come da un senso di fatalità. Il paesaggio campestre è interferente nel suo immobile silenzio, ma ben si sintonizza con i riti di una Sicilia arcaica popolata di volti pietrificati nella fatica e nell’afflizione, di figure anonime.

Ma, per fortuna, continua Amoroso, l’autore riprende presto la via del simbolo. Ripropone una prova letteraria di esibita acrobazia linguistica di resoconti cronachistici sotto le meraviglie del cielo e della terra. Anche quest’ultimo libro, quindi, è reso singolare dalla personalità dell’autore, dal suo tratto autobiografico e dalla passione evocativa, sempre sullo sfondo di una Sicilia perennemente afflitta… da tante penurie, carestie.

 

Giuseppina Rando

 

 

1 L. Sciascia, Cruciverba, Einaudi, 1983, pp. 32-33.

2 V. Consolo, Lo spasimo di Palermo, Mondadori, 1999.

3 Cfr. K. Marx-F. Engels, La Sacra Famiglia. Ovvero critica della critica contro Bauer e Soci, Editori Riniti, Roma 1972.

4 V. Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, Einaudi, Torino, 1976.

5 V. Consolo, L’olivo e l’olivastro, Mondadori, 1999.

6 V. Consolo, La mia isola è Las Vegas, Mondadori, 2012.

7 G. Amoroso, “Scaffale di Letteratura italiana contemporanea” in: Approssimazioni critiche, n. 54/53 nuova serie, ottobre 2012.


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