Testo dell’intervento alla serata organizzata dalla Libreria del Naviglio di Cernusco e intitolata “Fascino e pericolo del Potere”
Se ribellarsi è giusto, lo è ancora di più quando c’è di mezzo il pane. Perché una società che si definisce civile, un tocc de pan lo dovrebbe garantire a tutti.
A Milano, di rivolte per il pane ce ne sono state due famosissime e in entrambe le occasioni il potere ha fatto una pessima figura.
1898, maggio: Milano è in pieno boom economico. Ma la ricchezza di pochi è il frutto della povertà di tantissimi: bambini al lavoro a 6 anni, operai con turni di 12 ore, incidenti, malattie, mortalità infantile, prostituzione… Di conseguenza, quando si sparge la notizia dell’aumento del prezzo del pane (e del possibile richiamo alle armi per la guerra in Africa) una parte del popolo, esasperata, si riversa per le strade insieme agli operai che hanno proclamato uno sciopero generale a causa della morte di uno di loro, avvenuta il giorno prima per mano dell’esercito.
In realtà, non si stratta di una vera rivolta, ma solo di una protesta. Certo, i milanesi lanciano sassi, innalzano qualche barricata (piuttosto approssimativa), però basterebbe far sfogare la folla e tutto finirebbe lì. Invece, il potere mostra la sua faccia più idiota. Ed è la faccia del generale Bava Beccaris, che decide di usare il pugno di ferro sostenendo che si tratta dell’inizio di una rivoluzione socialista e che i milanesi possiedono delle armi.
Le armi, invece, non ci sono affatto: non si tratta della replica delle Cinque Giornate! E questo è subito evidente ma lui, Bava Beccaris, il potere, va dritto per la sua strada. Così, 20.000 soldati si accampano in città e a loro è permesso di sparare, mentre la cavalleria attacca a colpi di sciabola e il cannone viene utilizzato perfino contro un convento, quello dei Cappuccini in Corso Monforte: i mendicanti che sono in fila per il pane vengono ritenuti dei rivoltosi andati a prendere armi dai frati, e due poveretti muoiono per questo.
È una pazzia. Anzi, una vergogna. La vergogna di un potere che usa una violenza assurda uccidendo ufficialmente un’ottantina di persone, tra cui alcuni bambini. Anche se, in verità, i morti sono di più: qualche centinaio. Mentre tra le forze dell’ordine, tanto per dare un’idea, sono solo due, e nemmeno provocati dai manifestanti.
La protesta finisce con migliaia di arresti, con processi alla “sudamericana”. E poi, ciliegina sulla torta, arrivano le congratulazioni al Bava Beccaris da parte dell’arcivescovo Ferrari (che era rimasto fuori città) e del re Umberto I, che proprio per questo verrà ucciso a Monza due anni dopo dall’anarchico Bresci.
L’altra rivolta per il pane ci porta invece nella Milano seicentesca, quella raccontata dai Promessi Sposi. È il pomeriggio dell’11 novembre 1628 e Renzo giunge in città perché deve fare calmare le acque agitate che ha lasciato al suo paese. Con sé, porta una lettera di raccomandazione scritta da Fra Cristoforo ed è diretto al convento di Padre Bonaventura, situato nei pressi di Porta Orientale.
Quindi, immaginiamolo mentre lambisce il Lazzaretto, che in quel momento è vuoto, e si presenta davanti a Porta Venezia, che in epoca spagnola è costituita solo da due pilastri sormontati da una tettoia. Le guardie, al contrario di quello che gli hanno detto i suoi compaesani venuti a Milano, non lo guardano nemmeno, e così Renzo entra in città senza problemi. E qual è la prima cosa che incontra, o meglio, che Manzoni gli fa incontrare?
Il pane, che lui trova sotto la Croce di San Dionigi, allora posta all’imbocco dell’attuale via Borghetto. Quando lo vede, Renzo rimane meravigliato: “È pane davvero… Così lo seminano in questo paese? In quest’anno? E non si scomodano neppure per raccoglierlo, quando cade? Che sia il paese di cuccagna, questo?”.
Da bravo ragazzo qual è, Renzo raccoglie tre pagnotte ma promette che non appena possibile le restituirà. Dopo di che, incredulo, assiste alle discussioni fra tre membri di una famiglia che stanno uscendo dalla città carichi di farina e pani. Quindi, prosegue fino al convento, ma visto che padre Bonaventura non c’è, decide di andare verso il centro, attirato dal brusio che si avverte.
Perciò, nel nostro percorso di fantasia, vediamolo varcare il Naviglio sul ponte di S. Damiano, attraversare la contrada di Porta Orientale passando davanti alla chiesa di S. Babila e imboccare l’attuale Corso Vittorio Emanuele, allora diviso in tre parti, di cui una si chiamava corsia dei Servi.
Infine, Renzo giunge davanti al forno che è stato appena assaltato dalla folla in tumulto, un locale realmente esistito ma non all’altezza del n° 1, dove adesso si trova una targa commemorativa. Si chiamava pristinum Scanciorum, cioè il forno degli Scansi, che però Manzoni traduce scambiando il cognome della famiglia di origine toscane con il termine in milanese, che significa “grucce”, così da chiamarlo “forno delle grucce”. Un aneddoto racconta che, proprio per merito della citazione ne I Promessi sposi, il negozio ottenne un grande successo e che il proprietario, per la pubblicità che gli aveva fatto il Manzoni, gli regalasse i suoi dolci.
Ritornando al libro, una volta giunto davanti al forno, Renzo giudica molto negativamente questo assalto. Dice “Questa poi non è una bella cosa: se conciano così tutti i forni, dove voglion fare il pane, nei pozzi?”. E con queste parole viene fuori il suo buon senso, anche se, invece di tornarsene indietro, come sarebbe saggio fare, segue la folla passando a fianco della Cattedrale e a lato della piazza, che ai tempi era completamente diversa, con le case che arrivavano a ridosso del Duomo.
Entrando nell’area di piazza Mercanti, Renzo vede il palazzo dei Giureconsulti e parla della nicchia dove attualmente si erge la statua di S. Ambrogio. Allora, invece, era vuota, e pare che fu proprio la lettura de I Promessi Sposi a spingere il cavaliere Giuseppe Fossani a finanziarne la creazione nel 1833.
Renzo, poi, sbocca nel Cordusio, che era una piazzettina (o meglio, un crocicchio) dove si trovava un altro il forno che la gente sperava di assaltare. Ma essendo già presidiato, i milanesi decidono di spostarsi verso Via S. Maria Segreta, davanti alla casa del vicario di provvisione, un Melzi, che è accusato di essere il responsabile dell’aumento del prezzo del pane.
Al che, dobbiamo spiegare il pasticcio che era successo e che aveva come protagonista il potere spagnolo. In tutto il Ducato di Milano, quell’anno, vi era una carestia provocata da vari fattori, tra cui una guerra in corso, ma i cittadini non ci credevano ritenendo che la mancanza di grano fosse solo un’invenzione. Le loro proteste, di conseguenza, avevano convinto il gran cancellier Ferrer, sostituto del governatore don Ferrante Gonzalo impegnato nella guerra di successione al Ducato di Mantova, a stabilire un prezzo del pane troppo basso, facendo così accorrere la popolazione ad acquistarlo.
Ma mentre la folla esultava, i fornai si erano infuriati per il troppo lavoro e lo scarso guadagno, ed erano riusciti a far arrivare le loro rimostranze al governatore che, non potendo tornare, aveva nominato una giunta. La quale, dopo i vari salamelecchi tipici dell’epoca, si era espressa per l’aumento del prezzo del pane facendo di nuovo imbestialire il popolo.
Renzo, senza ovviamente saperlo, era entrato a Milano proprio il giorno dopo questa decisione, nel caos più completo, in piena rivolta. E come si sa, sarà costretto a scappare a gambe levate la mattina successiva dopo essere stato arrestato come uno dei protagonisti del tumulto.
Il suo rapporto con il pane, però, riprende nell’agosto del 1630, nella Milano della peste, quando mette di nuovo piede in città alla ricerca di Lucia. Infatti, entrato stavolta da Porta Nuova, quando si trova nell’attuale via S. Marco si imbatte in una donna che, chiusa in casa a causa dell’epidemia, gli chiede da mangiare. Al che, lui le consegna il suo pane, ricordandosi di quella volta che lo aveva trovato in Corso Venezia, chiudendo il cerchio. Ma non è ancora finita, perché il pane è di nuovo protagonista alla fine del romanzo, quando Fra’ Cristoforo regala a Renzo e Lucia come dono di nozze il “pane del perdono”.
E qui Manzoni è grandioso, perché unisce un simbolo pazzesco, il pane, con un valore incredibile, il perdono. E allora vi faccio una domanda: ma voi sareste veramente disposti a perdonare il vostro peggior nemico? A perdonare quel criminale di Bava Beccaris? Bella domanda. Ma fondamentale, perché ci sbatte in faccia chi siamo…
Di certo perdonare è più difficile di vendicarsi, ed io quell’assassino di Beccaris spero marcisca all’inferno. Ma fa crescere di più. Perdonare fa bene. E soprattutto il perdono ci avvicina, ci fa assomigliare a quel Dio Buono, a quel Dio Padre di cui tutti, credenti o atei come me, sentiamo spesso la necessità di avere a fianco.
Mauro Raimondi