Nell’aprile 2019 ricorre il XXV anno dal genocidio dei Tutsi perpetrato in Rwanda nel 1994, che rappresenta un episodio chiave della fine del XX secolo, emblematico della storia dell’Africa e dei rapporti tra Africa e Europa. Mettendo a confronto i testimoni di allora con chi oggi è impegnato nella tutela della vita e della dignità dei profughi, l’Università degli Studi di Genova (nello specifico i Dipartimenti di Scienze Politiche, di Economia, di Giurisprudenza, di Scienze della Formazione e di Scienze della Salute) in collaborazione con la Fondazione San Marcellino e Ibuka Italia ha organizzato un momento di riflessione così intitolato “Rwanda, 25 anni dopo una riflessione tra Africa ed Europa sul genocidio del 1994”. L’evento non è solo finalizzato a rievocare gli eventi del 1994 e il successivo percorso di pacificazione e riassetto del Paese, ma intende meditare sull’essere profugo, allora e oggi, e mettere in evidenza le azioni positive, come l’allestimento di corridoi umanitari, che possano alleviare la condizione delle persone dislocate. Memoria, convivenza, cooperazione, migrazione, sviluppo sostenibile, diritti, equità – saranno le parole chiave per una riflessione condivisa tra testimoni, operatori umanitari, docenti e studenti, che leghi l’Africa di allora e di adesso con l’Europa e il nostro ruolo di cittadini oggi.
È passato un quarto di secolo e in Rwanda le ferite sono ancora aperte ma alcune cose sono cambiate: da Paese di esuli a che ospita quasi 160.000 rifugiati, quasi tutti in fuga dal conflitto nel vicino Burundi e nella Repubblica Democratica del Congo; il reddito pro capite che nel 1995 era di 125 dollari, ora è passato a oltre 800; sono stati fatti notevoli progressi nella stabilizzazione e nel ripristino dell’economia ben oltre i livelli precedenti al 1994. Dal 2003 il PIL ha registrato una ripresa con una crescita media annua del 6-8% e l'inflazione è stata ridotta a una sola cifra. Nel 2017, secondo le statistiche governative, il 35% della popolazione viveva al di sotto della soglia di povertà, rispetto al 57% del 2006. Il governo ha adottato una politica fiscale espansiva per ridurre la povertà migliorando l'istruzione, le infrastrutture e gli investimenti esteri e nazionali. Il governo ruandese sta cercando di diventare un leader regionale nelle tecnologie dell'informazione e della comunicazione e mira a raggiungere lo status di reddito medio entro il 2020 facendo leva sul settore dei servizi.
Un'ascesa favorita in parte anche dagli aiuti di una comunità internazionale che sentiva di dovere qualcosa per la sua inerzia durante il genocidio. Vietando ogni riferimento all'appartenenza etnica nella vita pubblica e facendo della giustizia dei responsabili del genocidio una priorità, con l'aiuto di tribunali popolari, le autorità sono riuscite a far convivere vittime e carnefici. Senza contare che una maggioranza di ruandesi, 7 milioni su 12, non era nata all'epoca del genocidio. Ciò nonostante la memoria di quei 100 giorni va tenuta viva (ibuka in ruandese significa ‘ricorda’) riflettendo e contrastando forme di negazionismo o di revisionismo su ciò che è accaduto: uno sterminio scatenato dall’odio interetnico tra Hutu e Tutsi, che la comunità internazionale non è stata in grado di fermare, o meglio quando ha dato segnali di intervento era già troppo tardi.
Nicoletta Varani
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