(da 'l Gazetin, gennaio 2007)
Buon anno genitori! anche se le notizie buone scarseggiano, questa che vi racconto almeno fa ridere ed è già molto. A quanto sembra, i proletari sono tornati di moda ed anzi, secondo alcuni, furono di moda fin dalla loro comparsa agli inizi dell’800.
La curiosa notizia viene dal libro di storia1 di mia figlia, il quale dedica una trentina di pagine alla prima rivoluzione industriale. L’inizio trionfale celebra le magnifiche sorti e progressive dell’ingegno, della tecnica e del fiuto per i buoni affari che a partire dalla seconda metà del ‘700 fecero dell’Inghilterra la prima potenza tecnologica ed economica del mondo. Dopo poche pagine l’autore si pone opportunamente una domanda: da dove provenivano i finanziamenti per i nuovi immensi investimenti?
La risposta è duplice, anzi assente: le banche e i privati risultano essere i finanziatori della prima rivoluzione industriale. Buuh! La domanda riguardava la provenienza del denaro, non i possessori. Forse all’autore non è parso carino affermare che il commercio degli schiavi e l’economia di rapina colonialista, che duravano ormai da due secoli, avevano fornito immense fortune a chi gestiva questi traffici. E forse è sembrato poco educativo sottolineare che le proprietà terriere furono accentrate in poche mani dai grandi proprietari, i quali trasformarono migliaia di contadini autosufficienti in migliaia di senzacasa-senzalavoro-senzacibo-senzauncazzo-disposti a tutto per non morire. Disposti a tutto vuol dire che molti si affollarono intorno alle nascenti industrie e alle miniere e andarono a costituire la classe operaia, mentre altri preferirono la delinquenza e il suicidio alcolico.
Comunque un riferimento, assai curioso invero, a questi poveracci lo troviamo poco più avanti nel testo con queste sconcertanti parole: «All’entusiasmo degli imprenditori, dei tecnici e degli scienziati si contrapponeva lo squallore della vita degli operai. O, per usare una definizione diventata allora di moda, dei proletari: cioè di coloro che vendevano, in cambio di uno stipendio, il loro lavoro».
Sì, chiamarli operai divenne una moda, cioè se ne parlava in questi termini al tè con la contessa o al club tra gentlemen.
Cessato il primo accesso di riso, ho fatto mente locale, cercando di recuperare un po’ di storia liceale in fondo alla memoria: ah, ecco, il termine proletariato fu introdotto da Marx e Engels intorno agli anni 40 dell’800, eh già, non fu forse di moda fra le classi agiate, ma i primi movimenti di lotta dei lavoratori erano intrisi di questa parola e di altri concetti non di moda ma assai concreti, quali alienazione e sfruttamento.
Che tristezza, che rabbia, il riso si è gelato in gola.
Questo è il libro di Storia? no, è un libro di favole insulse.
Ok, ho esagerato, mi si perdoni l’enfasi; ma definire il proletariato una moda è un atto di negazionismo bello e buono, anzi brutto e cattivo. E non vorremmo negazionismi nei libri della scuola dell’obbligo.
È umano tuttavia, e contemporaneamente diabolico, che i libri di testo seguano l’onda nel momento in cui vengono scritti e proposti. Ricordo ancora il mitico Camera-Fabietti e il più colto Villari che negli anni 70 dissertavano ampiamente di classe operaia, questione meridionale e via sinistreggiando. Personalmente, li ho amati.
Oggi la storia si riscrive come un libro di Oliver Sacks, il neurologo che scrive storie e romanzi tratti da casi clinici, dove i personaggi perdono l’uso di certe parole e non riconoscono più una metà del proprio corpo. Siamo in piena patologia, ed il libro di storia fa esso stesso storia, lasciando ai posteri un’idea corretta sulle aberrazioni del XXI secolo.
Giancarlo Sensalari, p. Ass. Scuola e Diritti