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“Il cinema racconta Milano” di Palazzini, Raimondi e Veronesi Carbone
11 Marzo 2019
 

«La città di Milano e il cinema, che bella coppia! Una coppia riservata, di cui si è parlato poco, ma che vanta una lunga storia, una storia tutta da scoprire, preziosa come lo sono certi capolavori conservati nella penombra di un’esposizione per non rischiare che troppa luce li possa rovinare. Milano discreta, che non ha mai voluto “sfruttare” il mezzo cinematografico per farsi pubblicità. Lo ha accolto sempre con piacere, senza mai obbligarlo al suo dialetto, alle sue piazze, alle sue storie. Forse per questo i film girati a Milano sono ricordati soprattutto per essere “film”, storie universali. La città, in cui sono stati girati, rimane a guardare, affascinata dal mistero di un dramma, divertita da una commedia, interessata da un personaggio. Sia uno Svitato con le sembianze di un giovane Dario Fo o una schiera di barboni in volo a cavallo di scope, Milano li osserva sempre a bocca aperta, divertita», Maurizio Nichetti.

 

Anno Domini 1896: “... sta per cominciare l’evento Un gruppo di persone è già seduto in un locale quasi del tutto privo di illuminazione, utilizzato dai fratelli Pacchioni alla Fiera di Porta Genova come studio fotografico. Parte un inaspettato fascio di luce. Ecco le immagini, sorprendentemente in movimento: alcune donne e alcuni uomini, eleganti e vestiti di scuro, passeggiano nella corte interna del Castello davanti a un cane sdraiato e fanno l’elemosina a una persona, a destra fuori dall’inquadratura, di cui s’intravede la figura abbassata rispetto agli altri personaggi. È un impostore, finge di avere una deformazione alle gambe per impietosire i passanti e ottenere, dentro al cappello che tende con la mano, i risultati tangibili della compassione. L’inganno viene però scoperto e lui fugge via, prima zoppicando e poi, assieme al cane, correndo senza più manifestare alcun tipo di problema”... sono i primi fotogrammi, la primissima pellicola vista dai milanesi per opera e merito del ventiquattrenne Italo Pacchioni, pioniere del cinema, di cui si era innamorato dopo la scoperta dei già leggendari Fratelli Lumière. E il buon Italo, fidando nella propria eccezionale memoria e perizia tecnica, si era costruito una cinepresa con cui aveva cominciato a deliziare le stupite platee meneghine e italiche. Ed ecco, per l'appunto, i filmini de Il finto storpio del Castello Sforzesco, l'Arrivo del treno alla Stazione di Milano (perduto), La gabbia dei matti, La battaglia di neve e, a seguire, I funerali di Giuseppe Verdi, avvenimento di grande portata sociale. Invero il primo sbarco del cinema a Milano era avvenuto al Circolo Fotografico di via Principe Umberto 30 (l’attuale via Turati). Come non rimanere toccati, un senso d'invincibile nostalgia nell'anima, per quei tempi innocenti e così pronti a sbalordirsi per la nuova meraviglia tecnologica capace d'intrappolare (!) le immagini in movimento e tramandarle ai posteri, a una specie – incommensurabile, inesprimibile concetto – di breve eternità?

Dobbiamo a questo punto ringraziare il magnifico e ben assortito trio Marco Palazzini, Mauro Raimondi e Edoardo Veronesi Carbone per la loro splendida fatica Il cinema racconta Milano (Edizioni Unicopli), un libro che è insieme saggio e “romanzo”, un viaggio nella capitale meneghina, austera e pure così ricca di suggestioni fantastiche, e nel cinema che in essa si è fatto e che la rappresenta, e con cui, attraverso la sua rappresentazione, si racconta il Paese stesso, giacché al di là di ogni sciovinismo o particolarismo Milano è sempre stata motore non solo economico e finanziario, bensì sociale e creativo dell'intera nazione.

Non ci si annoia di certo a leggere questo saggio volume, dotto – passateci il termine – e agile, approfondito e di scorrevolissimo stile. Una sorta di piccola enciclopedia narrativa, con citazioni, richiami, echi: storia e aneddotica mai banale. Appassionante, a dir poco.

Così scorriamo dall'altro pioniere Luca Comerio (ah i Navigli... e la testimonianza delle adunate fasciste a Milano) a Elettra Raggi (vero nome Ginevra Francesca Rusconi), attrice, scrittrice e regista, diva e antidiva, dall'Inferno di Dante – “È il primo lungometraggio italiano, cinque bobine per una durata complessiva di 68 minuti; è il primo film iscritto al Pubblico Registro delle Opere Protette, quindi tutelato dalla legge sul diritto d’autore [...]. La composizione dell’opera è divisa in 54 sezioni, che seguono fedelmente la prima cantica della Divina Commedia e che sono ispirate, figurativamente, alla classica iconografia dantesca. Sono soprattutto le suggestioni barocche e in parte grottesche illustrate da Gustave Doré a ispirare il film, che procede scena dopo scena seguendo le 53 incisioni che il grande artista ha dedicato all’Inferno” – a Gabriele D'Annunzio, da Gli uomini, che mascalzoni... (1932) e I grandi magazzini (1939) di Mario Camerini ai documentari (più che interessanti quelli girati durante i tristi e duri giorni della Seconda Guerra Mondiale) e a Il generale Della Rovere (1959) di Roberto Rossellini.

E, capolavoro che fissa i tempi e pure senza tempo, Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti, Miracolo a Milano di Vittorio De Sica e Totò con Peppino alla Stazione Centrale e in Piazza Duomo – Noio volevàn savoir – alle prese con il vigile e quella strana lingua mutuata da Carlo Porta, l'Audace colpo dei soliti ignoti, Il vedovo di Dino Risi e le commedie, Gino Bramieri, l'immenso Ermanno Olmi (Il posto), il cinema d'animazione di Nino e Toni Pagot, La vita agra di Carlo Lizzani, trasposizione dell'omonimo romanzo di quel gran genio di Luciano Bianciardi, maremmano inghiottito dalla Grande Milano, di cui svela, segreti, miserie e splendori. E Michelangelo Antonioni con La notte – il grattacielo Pirelli, le periferie e l'incomunicabilità –, Damiano Damiani e Marina Spada, Maurizio Nichetti e Teorema di PPP, la Liliana Cavani de I cannibali, la classe operaia (in paradiso?), il Romanzo popolare con il triangolo Tognazzi-Placido-Muti.

Invero l'elenco sarebbe infinito (ma mai stucchevole). E vi sono gli incroci fra i giallisti-noiristi milanesi – Scerbanenco, Pinketts, Dazieri, e prima il geniale Scerbanenco – e il cinema, lo yuppismo, Piazza Fontana, Pozzetto, Abatantuono e Celentano, il precariato, la droga distruttrice di sogni e progetti, la Fame chimica – “un vero viaggio attraverso la periferia presentando, oltre a Quarto Oggiaro, Lampugnano e Bonola, via Fratelli Zoia e la zona dell’Ospedale San Carlo, il Gratosoglio (con le torri BBPR) e il Lago verde di Buccinasco” e la fatica di vivere. Un panorama-arcobaleno che più variegato non si può, incluso il disagio esistenziale e l'inquietudine de L'aria serena dell'Ovest di Silvio Soldini... “Il lungometraggio racconta le microstorie di quattro personaggi legati dalle vicende di un’agenda telefonica e colti in uno stato di incertezza esistenziale, che hanno l’occasione per uscire dal proprio disagio deviando dal binario tracciato della loro vita. Una possibilità, in nome del desiderio di un altrove magari al di fuori dai confini della città, che dura pochi giorni, fino al loro rientro nei ranghi provocato dalla forza d’inerzia dei rapporti di coppia di partenza o dalla scelta della carriera al posto della vocazione professionale. Solo l’infermiera Veronica, proprietaria dell’agendina, riesce ad evitare questo fallimento abbandonando quella Milano di cui, all’inizio, si dichiara innamorata (“Mi piace la città, la notte, la musica… La gente che c’è, perché ce n’è tanta…”), lasciando a chi resta l’interrogativo su cosa si debba fare perché succeda “qualcosa di decente” e riscrivendo in una clinica svizzera la propria rubrica.

L’intreccio si dipana mentre la televisione rimanda immagini e suoni di un mondo che sta mutando epocalmente (da piazza Tienanmen alla caduta del muro di Berlino), e nel mostrare la sospensione delle vite dei protagonisti Soldini identifica Milano con l’espressione di quella crisi che investe le classi medie dell’Occidente. Una metropoli dove la sotterranea tensione che si avverte può emergere improvvisamente, come per la coltellata sui Bastioni ad Ivano Marescotti per futili motivi o il suicidio del ragazzo che “si trovava a Milano da pochi mesi per lavoro, ma non ha resistito alla solitudine”, come si legge sul giornale. La rappresentazione della città è in assoluto una delle più significative mai realizzate, caratterizzata da squarci anonimi e vie spesso non immediatamente identificabili. Immagini non ufficiali, che rifiutano la foto da cartolina e l’aria ammiccante proposta dalle commedie “da bere” dello stesso periodo”.

E non dimentichiamoci della città multietnica, dell'integrazione (in parallelo alle forme di una certa disintegrazione valoriale, cui si contrappongono vari antidoti, alias l'azione dell'universo del volontariato), le immani sfide del presente.

Milano non ha, come Roma, Cinecittà, ma è a propria volta metropoli da settima arte, a propria volta caput mundi.

 

Alberto Figliolia

 

 

Marco Palazzini - Mauro Raimondi - Edoardo Veronesi Carbone

Il cinema racconta Milano

Prefazione di Maurizio Nichetti

Edizioni Unicopli, 2018, pp. 223, 15 euro


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