Non c'è forse sentimento più scandaloso della simpatia per il Male. Scandaloso per l'uomo che lo individua in un suo simile; ma scandaloso anche per chi prova, e magari coltiva dentro di sé, quel sentimento. Perché la simpatia per il Male implica la capacità di riconoscere il Male come tale, senza abbellirlo o mascherarlo; e tuttavia lo si abbraccia, ci si compiace di identificarsi con esso, si sprofonda nel Male con l'immaginazione. E' forse un modo per ferire se stessi, e per ferire lo spettatore di una passione così evidentemente immorale.
Questa dinamica sadomasochistica tra autore e spettatore è, a mio parere, alla base dell'ultimo film di Lars von Trier, intitolato: La casa di Jack. Un film che, come certamente era nelle intenzioni dell'autore, ha fatto scandalo all'ultimo festival di Cannes (durante la proiezione ufficiale pare che diversi spettatori abbiano abbandonato la sala). Esce nelle sale italiane censurato, nella versione doppiata in italiano, dei dettagli più raccapriccianti; e integrale nella versione originale sottotitolata in italiano.
Il tema del film è, al cinema, tutt'altro che inedito. Il Jack del titolo è un serial killer, che uccide le sue vittime – donne, bambini, uomini perlopiù immigrati – per il solo piacere di ucciderli; conserva i loro cadaveri in una cella frigorifera; si diverte a imbalsamarli, a creare oggetti o architetture con le loro membra.
L'originalità nel film non è nelle atrocità che racconta, alle quali gli spettatori di un certo genere di thriller sono già abituati. L'originalità è nel punto di vista dal quale quelle imprese sono raccontate. All'ovvia condanna di un comportamento così evidentemente, radicalmente malvagio, von Trier sostituisce, se non l'approvazione, un senso di complicità con l'assassino. Così quando il maniaco imbalsama il cadavere di un bambino che ha ucciso facendogli assumere l'aspetto di un pupazzo sorridente; o quando ricava un portafogli dal seno che ha asportato a una ragazza, di fronte a queste atroci freddure materializzate, si ha l'impressione che l'autore stia sinistramente sghignazzando insieme al suo personaggio.
Del resto tutto il film è costituito, insieme al racconto di crudeltà di questa specie, dall'esposizione diretta o implicita in quel racconto, dell'ideologia della crudeltà.
La natura non contiene anche forze distruttive? Non instilla negli animali la ferocia, per la quale il più forte sbrana il più debole? C'è forse un Dio che interviene a soccorrere l'innocente aggredito, o le sue urla si disperdono nel silenzio? L'impulso di uccidere non si annida nell'animo di tutti gli uomini, perfino nei bambini? E allo stesso tempo, non esiste, in tante e in tanti, anche la tendenza all'inerzia, all'acquiescenza, a essere inconsciamente complici anche dell'aggressione ai propri danni, o perfino della propria uccisione?
Sono idee tutt'altro che nuove, in parte riprese da un classico ideologo della crudeltà come il marchese De Sade; e che nella Storia avrebbero forse raggiunto la loro apoteosi nel nazismo. E la figura di Hitler, il paesaggio dei campi di concentramento, sono più volte evocati, e a tratti vagheggiati, dal film.
E se una specie di Virgilio – interpretato da Bruno Ganz, il grande attore recentemente scomparso – che accompagna il protagonista nella sua discesa all'Inferno terreno, e poi in quello oltremondano, dialogando con lui sembra contrapporgli il valore dell'amore per l'umanità – ma retoricamente, come in falsetto – finisce poi per sposare le ragioni dell'assassino, si rivela il suo intimo complice.
La casa di Jack è un film che può essere giudicato, a ragione, repellente, abominevole. E tuttavia va riconosciuto che l'espressività delle immagini, prima ancora che le parole, riesce a veicolare l'ideologia del Male con forza, con incisività.
Dunque: un film interessante, se non altro come caso clinico (il caso dell'autore, prima ancora che del personaggio).
Gianfranco Cercone
(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 2 marzo 2019
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