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Gianfranco Cercone. “La douleur” di Emmanuel Finkiel
28 Gennaio 2019
 

Ci sono film in cui il protagonista si impone con tale forza rispetto all'ambiente, al contesto storico e agli altri personaggi del racconto, da essere il perno del film, tanto che tutto il resto sembra esistere in sua funzione, per attivare i suoi comportamenti e le sue reazioni interiori, per dare occasioni alla sua figura di esprimersi e di svilupparsi.

Potrà forse sembrare paradossale tale premessa per un film francese – uscito nelle sale italiane con il titolo originale: La douleur (Il dolore), diretto da Emmanuel Finkiel, e tratto dall'opera letteraria omonima, più un diario che un vero e proprio romanzo, di Marguerite Duras.

Paradossale perché l'ambientazione potrebbe sembrare in questo caso un elemento predominante nel racconto, che si svolge a Parigi, al termine della seconda guerra mondiale, quando i prigionieri di guerra francesi, superstiti dai campi di concentramento nazisti, rientrano in patria, attesi, a volte spasmodicamente attesi, dai parenti, dalle moglie e dagli amici.

La douleur è proprio il racconto di un'attesa. Una giovane donna, che adombra o rappresenta del tutto la stessa Duras, attende il ritorno a Parigi del marito, Robert Antelme, scrittore lui stesso, membro della Resistenza antinazista. E nell'attesa frequenta gli amici del marito, impegnati anche loro nella Resistenza; vicini di casa in attesa del rientro dei loro parenti; e incontra più volte un francese collaborazionista, un dirigente della Gestapo a Parigi, che le promette di aiutare il marito.

Così raccontato, La douleur potrebbe apparire un film storico tradizionale e corale.

Ma, come anticipavo, l'aspetto più originale del racconto è che l'interiorità della protagonista è preponderante e gli eventi esterni non sono linearmente, e magari pedissequamente, raccontati. Sono poco più che frammenti, collocati a volte nel presente della vicenda, a volte nel passato. Cosicché il contesto storico risulta scomposto, come, per così dire, in un quadro cubista.

Mentre al centro del quadro, della composizione, più compatta, c'è la storia intima della giovane donna: che certamente vive uno stato di ansia quasi insopportabile per l'attesa di quel rientro che sembra non realizzarsi mai (un'esasperazione che contagia lo spettatore). Ma è una storia intima che poi, come tutte le realtà umane quando siano raccontate in modo veritiero, è anche ambigua e contraddittoria. Così gli incontri della donna con il dirigente della Gestapo, venati, da parte di lei, di disprezzo, da parte dell'uomo di un'evidente attrazione, se pure non sfociano in una relazione sentimentale, se lei intende soltanto sfruttare quell'uomo ed è anche disposta a farlo cadere in una trappola organizzata dalla Resistenza, è anche chiaro che un uomo che, nello stato di angoscia in cui lei si trova, le promette conforto e protezione, che ha l'eleganza e la cortesia di un gentiluomo, costituisce per lei una tentazione, che il tradimento, del marito e dei propri ideali politici, è continuamente sfiorato.

E poi il suo irrigidimento nell'attesa, lo stato di mortificazione che lei si autoimpone, la rabbia con cui reagisce a chi mette in dubbio l'autenticità dei suoi sentimenti, fanno pensare che tanto rigore è più l'effetto di un imperativo morale, un dovere, che un'espressione di amore.

Che forse il senso di colpa impone alla donna di attendere il ritorno di un uomo che in effetti non ama più.

Tale introspezione nell'animo del personaggio trasforma il film in un monologo interiore, affidato non soltanto alle parole, ma anche alle espressioni del viso, agli sguardi.

Va detto che la protagonista trova un'interprete eccellente in Melanie Thierry.

È il film che la Francia ha scelto per partecipare alla competizione all'Oscar per il miglior film straniero. Da vedere.

 

Gianfranco Cercone

(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 26 gennaio 2019
»»
QUI la scheda audio)


 
 
 
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