Daniela Dawan
Qual è la via del vento
Edizioni e/o, 2018, pag. 240, € 17,00
Daniela Dawan, ora avvocato penalista e Consigliere della Suprema Corte di Cassazione, è nata a Tripoli dove è vissuta fino all’età di dieci anni prima di fuggire in Italia. Il suo romanzo, Qual è la via del vento, unisce dolore e smarrimento alla leggerezza della fantasia.
Che cosa nasconde la Collina verde, tanto da prolungare il soggiorno in Libia dell’avvocato Micol Cohen, che è andata lì solo per un breve incontro? Nel 2004 il governo di Gheddafi vuole riaprire i contatti con gli ebrei a cui sono stati confiscati i beni durante la Guerra dei sei giorni. Micol si reca in volo a Tripoli insieme ad una rappresentanza di anziani ebrei tripolini, costretti nel 1967 ad abbandonare la Libia e spogliati dei beni.
Ben presto Micol si accorge che la scelta caduta su di lei non è casuale, ma che qualcuno l’ha voluta incontrare: Fiallah, un vecchio amico di suo padre Ruben, un arabo che ha giocato con Ruben quando erano bambini e che da adulto lo ha aiutato a mettersi in salvo. In una posizione politica di prestigio, Fiallah è uno dei pochi arabi che segretamente e con suo enorme rischio si prodiga per un ebreo. E di Ruben conserverà i segreti.
Micol non ha mai saputo di possedere una casa alla Collina verde, i suoi genitori non gliene hanno mai parlato, una casa che Fiallah ha registrato a proprio nome per salvarla dalla confisca.
È alla Collina verde che si anima il vento, prende una voce, e Micol finalmente scopre la storia di Leah, la sorella morta prima della sua nascita di cui i genitori non parlavano mai: “Non avere paura, Micol! Tra di noi c’è solo un labile confine”. Quelle parole, le ha sentite davvero? O riemerge l’antico bisogno di stabilire rapporti con personaggi della sua fantasia?
Allora, prima di fuggire in Italia, Micol e la sua famiglia avevano trovato rifugio nella casa dei nonni paterni, in attesa dei documenti che l’arabo Fiallah avrebbe procurato per l’espatrio, una convivenza resa difficile dalla scarsità di cibo e dalla totale segregazione.
Micol è una bambina silenziosa, timida, che vive in un suo mondo incantato, che si rasserena immaginando che il palloncino che le sfugge di mano possa incontrare la sorella Leah su una nuvola; che non si separa mai da lei ma la tiene in vita nella sua immaginazione: “Il suo palloncino chissà dov’è. Forse Leah è riuscita a riacciuffarne il lungo cordino svolazzante”.
Leah invece è stata una bambina piena di energia, irrequieta, sempre alla scoperta di qualcosa. Come è morta? Inutili e devianti le parole della madre: “Quando Dio si accorse che tua sorella era troppo irrequieta per stare in un unico posto, questo mondo, decise di riprenderla con sé. Per qualche tempo”.
La Dawan ricostruisce i giorni drammatici della guerra che annullò all’improvviso antiche abitudini di convivenza tra arabi ed ebrei tripolini. Dovunque era caccia all’ebreo e grida di morte: illusi dai bollettini della radio egiziana, secondo i quali Israele stava per essere cancellata dalla carta geografica, gli arabi libici avevano deciso di farla finita con i propri “israeliani”, come gli eserciti giordani, siriani ed egiziani stavano facendo al fronte. Gli ebrei diventarono i nemici da braccare, scovare, tirare fuori dalle abitazioni, uccidere, continuando a scontare l’antica colpa della Crocefissione, che ne ha fatto dei perseguitati nella Storia.
Chi riesce a mettersi in salvo è sopraffatto dai ricordi e dalla nostalgia, dal dolore dell’abbandono forzato della casa, del lavoro, di tutto ciò che ha costruito: uno strappo che segna il corpo e l’anima. Fugge con il terrore del perseguitato che striscia nell’ombra, portando con sé pochi stracci buttati alla svelta in una valigia.
Lo strappo dalla propria terra inumidisce gli occhi. Come succede agli occhi di tanti immigrati che incontriamo sul nostro cammino, quando parlano della loro terra e della famiglia lontana.
Ma nel romanzo c’è la fantasia salvifica, che diventa poesia.
Marisa Cecchetti