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Idoli. Il potere dell’immagine
06 Gennaio 2019
 

L’ipotesi che Dio padre di tutte le religioni monoteiste fosse stato in origine una Dea Madre iniziò a delinearsi dopo la scoperta delle prime veneri paleolitiche, dove il corpo femminile era sentito come centro di forza divina. Proprio in quel momento, tra paleolitico medio e superiore, si pensa si siano verificati nello spirito e nella coscienza dell’uomo, determinati mutamenti di struttura della psiche. Alla fase dell’inconsapevolezza si contrappone una sorta di pulsione che gli specialisti oggi attribuiscono a un rapido evolvere della coscienza Nasce un concetto di religiosità. L’uomo aveva scoperto di avere un’anima.

Giancarlo Ligabue

 

 

È aperta, fino al 20 gennaio 2019, a Venezia a Palazzo Loredan sede dell’Istituto Veneto di Scienze Lettere e Arti, grazie alla Fondazione Giancarlo Ligabue la mostra “IDOLI. Il potere dell’immagine”, a cura di Annie Caubet (catalogo Skira). L’evento ci introduce nell’universo enigmatico delle raffigurazioni delle prime idee metafisiche da parte dell’uomo proponendoci, così, un viaggio affascinante nel tempo e nello spazio: il primo tentativo di confronto dall’Oriente all’Occidente di opere raffiguranti il corpo umano del 4000 – 2000 a. C.

Fin dalla preistoria l’uomo ha sentito la necessità di rappresentare la figura umana: con graffiti e le pitture murali, ma anche in forma tridimensionale. Da quei lontanissimi tempi, fin dall’età paleolitica, ci è giunta un’immensa quantità di statuette realizzate in diversi materiali riproducenti tratti umani.

La cosiddetta “rivoluzione neolitica” è epocale: segna il passaggio da clan e tribù a società più complesse, vede l’avvento di nuove tecnologie e della lavorazione dei metalli, l’affermarsi delle prime forme di scrittura in diversi centri, l’avvio di reti commerciali e dei relativi traffici anche tra popoli molto distanti, che in tal modo intensificano i rapporti e gli scambi di merci e materiali, di idee a forme espressive.

Attraverso circa 100 straordinari reperti – alcuni eccezionali per l’importanza storica e la rarità è possibile percorrere un ampio spazio geografico, che si estende dalla Penisola Iberica alla Valle dell’Indo, dalle porte dell’Atlantico fino ai remoti confini dell’Estremo Oriente. In un’epoca di grande transizione, in cui i villaggi del Neolitico si evolvono a poco a poco nelle società urbane dell’Età del Bronzo.

In questo contesto si collocano le misteriose rappresentazioni della figura umana esposte in mostra, di cui quattordici appartenenti alla Collezione Ligabue, le altre provenienti da collezioni private internazionali e da importanti musei europei.

Dapprima si manifestano quasi esclusivamente figure femminili, poi con l’affermarsi di società sempre più strutturate, sono soprattutto gli uomini ad apparire protagonisti: dei, sovrani, eroi.

Ė sorprendente vedere come, in parti del mondo tra loro lontanissime, si affermino tradizioni e forme di rappresentazioni simili o si ritrovino materiali necessariamente giunti da paesi distanti, eppure già in relazione tra loro: l’ossidiana della Sardegna e dell’Anatolia, i lapislazzuli importati dall’Afghanistan, l’avorio ottenuto dalle zanne degli ippopotami dell’Egitto o dalle Coste del Levante.

L’esposizione ci mostra, provenienti dalle Isole Cicladi, dall’Anatolia Occidentale, dalla Sardegna, ma anche dall’Egitto, dalla Spagna, dalla Mesopotania o dalla Siria – le famose “Dee Madri” (raffigurazioni femminili particolarmente prospere nei seni e nei fianchi, simbolo forse del potere della Terra, della Maternità e della Fertilità) e gli idoli astratti e geometrici che tanto affascinarono gli artisti del Novecento; oppure i cosiddetti idoli oculari” o idoli placca, nati dalla fascinazione esercitata dall’occhio come espressione della presenza spirituale, fino all’affermarsi, nel terzo millennio, del corpo umano nelle sue forme naturali.

Non più solo esseri dall’identità ambigua, in particolare dal punto di vista del sesso (figure femminili androgine, presenza contemporanea di organi sessuali maschili e femminili, ecc.) né solamente espressione di principi divini, ma anche uomini mortali, reali – spesso colti in atteggiamento orante – e nuove divinità create a immagine dell’uomo.

Quello che invece non cambia è il bisogno dell’individuo e della società di esprimere con manufatti o con opere d’arte, le proprie paure, le proprie speranze, la propria fede.

Nell’ambito di questa mostra il suonatore d’arpa delle Cicladi spicca come simbolo del ruolo svolto dalla musica che non esiste più. Rappresenta l’arte gentile dei suoni di cui cogliamo solo qualche riferimento attraverso i pochi resti di strumenti musicali sopravvissuti nel tempo e il più alto numero di immagini figurative. Nel IV millennio a.C. una certa varietà di strumenti a corda, a fiato e a percussione si era diffusa in diverse regioni del mondo antico, tra cui l’Elam, la Mesopotamia, l’Egitto, la valle dell’Indo e l’Oxus. Tra gli strumenti a corda, le prime a comparire furono le arpe, seguite da lire e liuti. Le arpe arcuate con molta probabilità derivarono la loro forma dall’arco dei cacciatori. Il nesso con la musica è attestato già nell’ Odissea (VIII secolo a.C.), nel libro in cui si racconta il ritorno di Ulisse a Itaca e in particolare il momento in cui l’eroe ritrova l’arco che usava venti anni prima:

Ma il Laerziade, come tutto l’ebbe

ponderato, e osservato a parte a parte,

qual perito cantor, che, le ben torte

minuge avvinte d’una sua novella

cetera ad ambo i lati, agevolmente

tira, volgendo il bischero, la corda:

tale il grande arco senza sforzo tese.

Poi saggio far volle del nervo: aperse

la mano, e il nervo mandò un suono acuto,

qual di garrula irondine è la voce.

Gran duolo i Proci ne sentirono, e in volto

transcoloraro; e con aperti segni

fortemente tonò Giove dall’alto.

Non si può non essere affascinati, nel percorso della splendida mostra della Fondazione Ligabue, dalle figure steatopige dell’Arabia, o dalle statuette cicladiche dalla sessualità ibrida o ancora dalle più enigmatiche sculture della preistoria cipriota, quelle statuine stanti del tipo plank-shaped (con i tratti del volto resi da una molteplicità di segni geometrici incisi, l’abbigliamento elaborato e spesso del tipo “a due teste”).

I geni raffigurati in questo periodo dagli artisti della Civiltà Oxus, sviluppata in Asia centrale (complesso Battriano – Magiano), narrano di battaglie cosmiche, di esseri dalla doppia identità animale e umana, ricompongono i fili del racconto mitologico ove il “Drago dell’Oxus”, detto anche “Lo Sfregiato” per il profondo corpo coperto di squame di serpente, era la controparte selvaggia della “Donna dell’Oxus”, forse lo spirito astrale, forse principessa Battriana.

 

Maria Paola Forlani


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