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Gianfranco Cercone. “Roma” di Alfonso Cuaròn
26 Dicembre 2018
 

Pier Paolo Pasolini, in un suo testo teorico sul cinema, aveva distinto un cinema “scritto” in prosa, e un cinema di poesia. Non era una distinzione di valore, il cinema in prosa non sarebbe cioè artisticamente inferiore al cinema di poesia. È una distinzione di stile. Il cinema di prosa ci dà l'illusione dell'obiettività delle immagini che impiega, di mostrarci le cose come davvero esse sono.

Nel cinema di poesia, invece, la realtà appare come deformata dal punto di vista di uno dei personaggi del racconto; il mondo si colora della tinta, dell'umore, magari della nevrosi, di una specifica psicologia, cosicché le immagini non appaiono neutrali, ma ostentatamente soggettive.

Mi è tornato in mente questo famoso saggio di Pasolini – intitolato appunto: “Il cinema di poesia” – vedendo un film che, a mio parere, rientra in tale categoria di cinema.

Si intitola Roma, lo ha diretto un regista messicano, Alfonso Cuaròn, ha vinto il Leone d'Oro al festival di Venezia, è uscito in alcune sale e su Netflix.

Il punto di vista dal quale sono visti i fatti e i personaggi raccontati dal film, è quello dell'infanzia, probabilmente di uno dei bambini che sono tra i personaggi del racconto. Ma tale punto di vista non è dichiarato da una voce narrante sovrapposta alle immagini, come avviene in tanti film. È un punto di vista implicito nelle immagini, cosicché, ad esempio, eventi minimali, come l'ingresso della grande macchina del padre nello stretto cortile di casa, al rientro da uno dei suoi viaggi all'estero, è dilatato nella durata, ingigantito, reso come carico di stupore, di ammirazione, per le dimensioni monumentali dell'automobile, per la perizia che la delicata manovra richiede, perché è come visto dallo sguardo di un bambino, ancora non assuefatto agli oggetti, e disposto dunque a mitizzarli.

La Roma a cui si riferisce il titolo del film è un quartiere di Città del Messico, ma Roma è anche il titolo di un celebre film di Federico Fellini, un autore al quale evidentemente Cuaròn si richiama: forse, più che a Roma ad Amarcord, un film che Fellini aveva dedicato alle sue memorie di infanzia e di adolescenza, dove a essere mitizzati, e ingigantiti, resi a volte anche fisicamente monumentali, erano personaggi come una prostituta di provincia, una tabaccaia, o piccoli fatti come il passaggio di una nave da crociera sul mare di Rimini.

Ma beninteso: Roma di Cuaròn non è un'imitazione del film di Fellini, perché i personaggi, le situazioni che descrive – e i dolori, le angosce che quelle situazioni sottendono – sono originali, tutte sue.

Se le immagini delle riunioni di famiglia – come: il padre, la madre e tutti i bambini raggruppati sul divano a guardare la televisione – portano al massimo grado di intensità il senso del calore, dell'intimità familiare, prevale nel racconto la sofferenza di una mancanza fondamentale, che si riflette su tutti i personaggi: ed è la mancanza di un uomo. Perché il padre abbandonerà definitivamente la famiglia, lasciando a lungo la moglie come tramortita; così come il fidanzato della domestica di casa la abbandonerà dopo averla messa incinta, e lei a lungo, inutilmente, andrà alla sua ricerca.

È un dolore attribuito ai due personaggi femminili – il senso dell'attesa infinita di un ritorno che forse non si realizzerà mai – ma che colora della sua sottile angoscia tutto il film, e che si indovina dominante nell'animo dei bambini, rimasti senza un padre.

Ora, in questo racconto così intensamente soggettivo – girato in un bianco e nero di una nitidezza crudele, che sembra incidere, insieme all'aspetto delle cose e delle persone, il male della vita – è incastonato un personaggio sottile, sfumato, che è l'aspetto più oggettivo del film. È il ritratto della domestica, una indios, devota quasi religiosamente alla cura della famiglia di bianchi presso cui è a servizio, umile, sottomessa, sfibrata dalla sue sventure, ma allo stesso tempo tenace nel perseguimento del suo dovere, perfino eroica, tanto da sfidare con il suo corpo le onde di un mare in tempesta, per strappare, aggrappare a sé i corpi di quei bambini che le sono affidati.

Questo ritratto, allo stesso tempo mitico e realistico, di un personaggio ai margini di una società maschilista e classista, ma centrale nell'esistenza dei bambini, è forse il risultato più poetico di un film da non perdere.

 

Gianfranco Cercone

(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 22 dicembre 2018
»» QUI la scheda audio)


 
 
 
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