Un film documentario si presta a due diversi tipi di valutazione: una valutazione storica (che, per esempio, considera la veridicità del racconto, la sua completezza, se faccia luce su aspetti inediti di fatti già noti) e una valutazione artistica.
Anche in questo secondo caso è considerata la “verità” del racconto documentaristico, ma in un senso diverso. Quel racconto sarà ritenuto bello, in primo luogo se riuscirà a essere “vero in sé stesso”; se cioè è così vivido, se le emozioni e i sentimenti che lo percorrono sono evocati con tale precisione, con tale intensità, che i fatti e i personaggi raccontati risulterebbero comunque veri, anche se, paradossalmente, non fossero mai esistiti.
Ora, il documentario che Nanni Moretti ha dedicato al colpo di Stato avvenuto in Cile nel 1973, che, come è noto, ha rovesciato il governo, democraticamente eletto, di Salvador Allende e ha instaurato in Cile la dittatura militare, si riferisce a fatti che sappiamo veri; per illustrarli, ricorre a immagini d'archivio, che non sono dunque ricostruite come in un film di finzione; e soprattutto ricorre alle parole di testimoni delle vicende raccontate: in gran parte attivisti, sostenitori del partito e del governo socialista di Allende, che, da un giorno all'altro, con l'interruzione delle libertà democratiche, si sono ritrovati a essere perseguitati politici (ma sono interpellati anche, sul fronte opposto, due esponenti dell'esercito).
Ora, il merito principale del film di Moretti è che la vicenda è raccontata in modo tale che non risulta un reperto storico; è resa attuale perché è fatta rivivere allo spettatore, che, per esempio, sente risuonare dentro di sé lo sconcerto di fronte a un evento sciagurato e inatteso come il bombardamento del palazzo della Moneda, la sede del governo; e poi l'angoscia di chi veniva condotto prigioniero allo Stadio Nazionale senza alcuna idea di ciò che gli sarebbe potuto capitare; e poi la paura, il terrore, di chi, imprigionato nei locali dello Stadio, udiva le urla di altri prigionieri torturati.
Insomma: le memorie dei testimoni sono qui così evocative, si fa in modo che si completino l'un l'altra con tale sapienza, che rendono a chi li ascolta quei fatti, oltreché chiari, emozionanti e imprevedibili, come se si stessero svolgendo sotto i suoi occhi.
Ed è certo imprevedibile, un risvolto, quasi surrealistico, fantastico, dei loro racconti.
In una Santiago trasformata in un carcere a cielo aperto, dove si rabbrividisce di notte ascoltando, dal proprio appartamento, lo squillo di un citofono, perché quello squillo può essere l'annuncio di una deportazione senza ritorno, ecco: basta scavalcare un muretto, non troppo alto e nemmeno impervio, in un momento in cui non c'è un soldato a sorvegliarlo, per ritrovarsi in una dimensione opposta: un parco, una piscina intorno alla quale gli ospiti prendono il sole, un palazzo dagli ampli saloni. È la sede dell'ambasciata italiana, che dà rifugio ai perseguitati cileni che a lungo conviveranno al suo interno, e che saranno poi fatti emigrare in un'Italia che garantirà loro un lavoro per tutto il tempo in cui durerà la dittatura in Cile.
La morale che sottostà all'intero racconto è sfaccettata ed evidente. In primo luogo è un monito, sulla preziosità e la precarietà della democrazia. Poi è l'elogio di un'Italia allora solidale e accogliente, contro un'Italia di oggi forse più egoista e più cinica.
Ma se questi e altri significati risultano incisivi, è perché prevale nel film, più forse che in ogni altro film di Moretti, il puro piacere di raccontare una bellissima storia.
Senz'altro da vedere.
Gianfranco Cercone
(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 15 dicembre 2018
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