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Gianfranco Cercone. “Tre volti” di Jafar Panahi
11 Dicembre 2018
 

La denuncia, quando si trasforma in un racconto, per esempio cinematografico, sembra associarsi necessariamente a uno stile tagliente, alla tensione della rabbia, o del furore, nei confronti del male denunciato, e anche nei confronti dei personaggi che nel racconto incarnano quel male.

Un aspetto originale dell'ultimo film di Jafar Panahi – un grande autore iraniano condannato dal regime a non realizzare più film e che ha realizzato quest'ultimo in clandestinità, con una piccola telecamera digitale – il film si intitola Tre volti, e ha vinto il premio per la migliore sceneggiatura all'ultimo festival di Cannes – un aspetto originale del film è che la denuncia, netta, senza concessioni, si accompagna a un evidente amore, all'osservazione felice e incantata, dell'ambiente, dei luoghi e dei personaggi, che racchiudono il male denunciato.

Il racconto di Tre volti prende avvio da un video girato da una ragazza che riprende il suo proprio suicidio per impiccagione, compiuto per protesta contro la propria famiglia e gli abitanti del proprio villaggio che le impediscono di frequentare una scuola di recitazione a Teheran, perché il mestiere dell'attrice è ritenuto disonorevole.

Il video è inviato a una famosa attrice iraniana, la quale, sconvolta, interrompe la lavorazione del film in cui era impegnata e, insieme al regista di quel film, lo stesso Jafar Panahi (che dunque qui interpreta se stesso), si avventura nel paese di montagna dove vive la famiglia della ragazza, per appurare se quel video è autentico, se la ragazza è viva o morta.

L'indagine è un'occasione per esplorare il paese: gli interni delle case, le strade sterrate dove non passano due macchine per volta, i caffé in cui si ritrovano gli anziani, e soprattutto la mentalità dei suoi abitanti, per i quali una ragazza che si ostina a perseguire un mestiere inutile come quello dell'attrice è di sicuro una testa vuota, degna per questo di essere emarginata, perché saggezza sarebbe invece obbedire alla famiglia, rinunciare, rassegnarsi: come in fondo si sono rassegnati loro stessi a riprendere il costume di vita dei propri antenati. E a riprova dei guai che capitano a chi trasgredisce, proprio nelle vicinanze del paese vive una vecchia attrice, un tempo famosa, ora caduta in miseria perché, dopo la rivoluzione khomeinista, non ha più potuto lavorare.

È una mentalità evidentemente gretta, odiosa.

Ma allo stesso tempo è vissuta con un tale candore, con un'ignoranza così profonda, con una tale incoscienza della propria involontaria malvagità, che di fronte a simili interlocutori ci si sente disarmati, sembra impossibile nutrire rancore verso di loro.

Certamente non nutre rancore Panahi, né il personaggio del racconto, verso il quale lui, quasi uno straniero venuto dalla città, i vecchi del paese si dimostrano molto gentili e ospitali, né il regista del film, che ne offre un ritratto benevolo.

Certo, considera con più favore la segreta, operosa solidarietà femminile, che si nasconde al controllo dei maschi, e che costituisce l'unico, fragile sostegno su cui può contare l'aspirante attrice.

Mentre l'unico moto di vera insofferenza del regista, è riservato al fratello della ragazza, la cui intolleranza somiglia al furore cieco di un fondamentalista islamico.

L'immagine conclusiva del film è un po' ambiguamente simbolica: un camion pieno di vacche si avvicina al paese per l'antico rito della monta, ma il toro, avevamo appreso poco prima, è moribondo. Significa forse che tutto si ripete come sempre, ma che allo stesso tempo tutto si trasforma.

Ma se la realtà raccontata del film potrebbe suscitare soprattutto sconforto e tristezza, il film contagia invece con il suo buonumore: che deriva dal gusto dell'osservazione dei volti e dei comportamenti dei personaggi, dall'affettuoso umorismo con cui sono considerati.

Da vedere.

 

Gianfranco Cercone

(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale l'8 dicembre 2018
»» QUI la scheda audio)


 
 
 
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