Una delle sfide che la scuola, oggi autonoma, si trova a dover gestire è la convivenza democratica. Potrebbe suonare parola ‘vecchia’ o comunque parola con la quale ci siamo già misurati, ma, alla luce della nuova composizione etnica della nostra popolazione scolastica, torna al centro dei nostri pensieri.
Già nei programmi dell’85 della scuola elementare e, poi, negli Orientamenti della scuola dell’infanzia l’accoglienza di tutti i bambini e l’educazione al rispetto dell’altro erano dei cardini su cui far ruotare l’intera attività scolastica.
Da allora abbiamo avuto un incremento dei bambini di altre culture che hanno posto in seria discussione questo concetto di ‘convivenza democratica’.
Non abbiamo, infatti, inserimento e integrazione chiedendo all’altro di annullare il suo modo di pensare, di comportarsi, di essere. Si costruisce interazione, ovvero scambio fra pari, mediando fra modi diversi di vivere, preparando terreni dove sia concesso fare scambi reciproci, dove il pensare e il comunicare siano occasione di apertura e non di chiusura dentro le culture individuali.
I bambini stranieri in Italia hanno avuto e hanno percorsi di vita e storie differenti: vi sono ricongiungimenti familiari dopo anni di distacco dal padre o dalla madre, giunti precedentemente; vi sono bambini nati in Italia da famiglie straniere o da coppie miste; vi sono, ancora, bambini che sono qui a seguito di adozioni internazionali. I paesi di provenienza sono per la maggior parte la zona del Magreb, l’ex Iugoslavia e l’Albania, la Cina, seguiti poi da America del Sud e sud-est asiatico.
Le grandi città, dove gli arrivi sono inseriti in esperienze più che decennali, si sono organizzate e hanno orientato gli interventi su progetti ormai consolidati. La nostra zona, di confine, ha appena iniziato l’impatto con questa nuova realtà che, gradualmente, va espandendosi ed è leggibile nei rapporti provinciali che escono annualmente.
Le emergenze di questi nuovi arrivi pongono gli operatori della scuola nella condizione di trovare soluzioni che possono rimanere estemporanee o legate al singolo caso, oppure organizzate in progetti di accoglienza.
Ma la scuola da sola non può farcela. Dopo aver raccolto la sfida della presenza di bambini stranieri, deve cercare sinergie con gli enti locali, generalmente comuni e comunità montane, perché attraverso la collaborazione possa far fronte a queste nuove esigenze.
I progetti nati in questi anni sono centrati sulla figura del ‘mediatore culturale’ che opera con bambini stranieri e con le loro famiglie. Punto di partenza è il principio che la mente umana funziona e si manifesta attraverso forme universali dell’intelligenza e del linguaggio (dal risolvere problemi all’immaginare, al creare modelli, all’argomentare e descrivere e interrogare…) e i comportamenti sono frutto del nostro essere soggetti emozionali per cui manifestiamo gioie, soddisfazioni, inquietudini, ansia…).
Pertanto questi sono i nostri oggetti di indagine che si concretizzano in percorsi di interazione sociale, di apprendimento di competenze specifiche, di sostegno e recupero in alcuni momenti, di integrazione di conoscenze sulle diverse culture…. attraverso l’utilizzo degli ‘spazi laboratori’ presenti all’interno della scuola.
Il cemento che lega insieme questi progetti è il forte raccordo (pensare insieme) fra la presenza esterna e gli insegnanti che operano già nella struttura scolastica per impostare prioritariamente la relazione, perno attorno al quale ruota qualsiasi tipo di educazione. L’educazione è, infatti, possibile se qualcuno offre attenzione, preoccupazione, investimento affettivo e qualcun altro ne è il destinatario partecipe, attivo e motivato. La relazione instaura rapporti, istituisce nuovi spazi relazionali, accompagna percorsi, produce eventi che originano cambiamenti.
Le storie dei singoli bambini sono alla base degli interventi che vanno ben meditati e adeguatamente proposti proprio perché i soggetti sono più vulnerabili, per effetto del già grande cambiamento cui hanno dovuto sottoporsi, loro e i loro nuclei familiari. La migrazione porta con sé uno strappo comunque doloroso rispetto alle proprie radici e una grossa difficoltà ad aggrapparsi a un terreno diverso, fatto di principi, valori, modi di vivere che spesso non aiutano.
La presa in carico di questi bambini e la risposta al loro primo bisogno di apprendimento linguistico aiutano forse a creare la condizione per diventare grandi anche con due culture.
Nelle scuole dove gli aspetti emotivi e relazionali ricoprono un ruolo fondamentale emergono molte occasioni per ‘far entrare’ culture altre: la festa, i giochi, gli ambienti, la cucina, le filastrocche e le ninne nanne… sono tutti spunti di lavoro, di attenzione, di riflessione per i bambini e rappresentano i primi momenti di entrata nella scuola per i genitori stranieri da protagonisti, come già altri genitori lo sono per aspetti o competenze particolari.
Una modalità per affrontare questa nuova problematica è, nel momento di avvio, uno stile ecosistemico, cioè la scelta di un intervento in sinergia con l’amministrazione comunale che a partire dalla scuola si estende, poi, alla comunità attraverso occasioni interculturali sul territorio. Nel frattempo si approfondiscono e si cercano di attuare altri stili: uno relazionale, perno del lavoro dell’insegnante con tutti i bambini, e uno etnocentrato attraverso l’allargamento degli orizzonti cognitivi e la conoscenza della storia, della religione, della cultura dei paesi i cui figli cresceranno con i nostri figli.
La preparazione professionale degli operatori della scuola dovrà, quindi, contemplare anche aspetti di conoscenza nuova in un’ottica di formazione permanente perché di fronte al dato di fatto della multiculturalità (presenza irreversibile di più culture sullo stesso territorio) occorre scegliere di essere interculturali, ovvero decidere di stabilire dei contatti fra le diverse culture presenti nel proprio contesto.
E questa è una scelta etica, prima ancora che cognitiva.
Fausta Svanella