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Gianfranco Cercone. “Euforia” di Valeria Golino
04 Novembre 2018
 

Diceva un grande scrittore, Luigi Pirandello: “Un fatto è come un sacco, vuoto non si regge. Perché si regga bisogna farci entrare dentro le ragioni e i sentimenti che lo hanno determinato”.

Per illuminare i fatti dall'interno, come appunto voleva Pirandello in questa celebre battuta, ogni autore dispone del patrimonio, più o meno variegato, dei propri sentimenti.

Valeria Golino, per il suo secondo film da regista, ne ha trascelto uno, e proprio intorno a quel sentimento – più che intorno a un tema o a un personaggio – ha costruito tutto il suo film. Che infatti ha per titolo il nome di un sentimento: Euforia.

La quale euforia, ci accorgiamo presto seguendo il racconto, è ben diversa dalla pura e semplice gioia. È quell'impulso di vitalità, volontaristico, che ci si impone a se stessi, e che ci porta ad afferrare i piaceri del vita, per contrastare un impulso contrario: quello di farsi sopraffare dall'angoscia; quell'angoscia in particolare che può cogliere all'idea della fugacità della vita e della prossimità della morte.

Il tema della morte è esplicitamente presente nel film della Golino. Uno dei due fratelli protagonisti del racconto, è affetto da un tumore maligno, che gli lascia pochi mesi di vita. L'altro tenta come può di nascondergli questa tragica verità. E disponendo di una comoda casa nel centro di Roma, di tanti soldi (è un affermato imprenditore), perfino di un autista, si ingegna, per quanto possibile, a far divertire il fratello, a mascherargli il suo destino.

È un tentativo estremo di riconciliarsi con lui, visti i conflitti latenti che da tempo li contrapponevano, dovuti in primo luogo alla diversità dei loro caratteri: se il fratello più ricco è un gaudente, e forse un superficiale, un frivolo, l'altro è più sobrio, più schivo, animato da una certa avversione moralistica nei confronti del fratello: che, oltretutto, è omosessuale, a differenza di lui che ha sempre amato le donne, essendone a sua volta riamato.

Come si può intuire, la riconciliazione fra i due è quantomai problematica, anche perché l'inganno a fin di bene che il fratello più ricco e in buona salute ordisce a favore del fratello più povero e malato, può apparire agli occhi di quest'ultimo un sopruso, un modo per l'altro di ribadire la propria superiorità,

Eppure una delle sottigliezze del film della Golino è che lascia intuire una somiglianza di fondo tra i due fratelli. Se in uno dei due l'angoscia è dovuta alla malattia, ma anche al pensiero che la morte concluderà una vita di cui è insoddisfatto, in cui non ha realizzato le sue aspirazioni, l'altro soffre, senza confessarlo, dell'angoscia del vuoto, dovuta a una vita che forse percepisce lui stesso senza un significato, uno scopo, riempita dai viaggi, dai rituali mondani, ma in fondo arida, monotona e solitaria.

E contro le loro angosce altro rimedio non troveranno che aggrapparsi l'uno all'altro.

Va detto che i due personaggi soffrono di una certa convenzionalità. Perché per esempio il fratello frivolo e gaudente è anche omosessuale? O perché il fratello frustrato fa proprio l'insegnante?

Ma gli attori che li interpretano, molto bene, Riccardo Scamarcio e Valerio Mastandrea, grazie proprio alla sottigliezza delle loro interpretazioni, riescono a renderli sempre convincenti.

 

Gianfranco Cercone

(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 3 novembre 2018
»» QUI la scheda audio)


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