L'altra settimana, parlando di un film turco molto bello, L'albero dei frutti selvatici, mi è capitato di definirlo un film-romanzo, perché, come avviene nei veri romanzi, racconta, attraverso e insieme le vicende del protagonista, un mondo: quello della provincia turca.
Il film di cui vi parlo oggi, bello anche questo – si intitola: Il verdetto, ed è diretto da Richard Eyre – anche se è tratto da un romanzo di Ian McEwan, autore anche della sceneggiatura, ha invece la dimensione di un racconto, concentrato com'è su un gruppo ristretto di personaggi e sugli esili avvenimenti di cui sono i protagonisti.
Ma anche se i fatti sono scarsi e la storia è poco più di un aneddoto, è analizzata con tale finezza e con tale profondità, che lascia trasparire significati complessi e ambigui. Protagonista della vicenda è una donna che di professione fa il giudice, e che si trova a dirimere un caso drammatico: un ragazzo, di pochi mesi al di sotto della maggiore età, gravemente malato, avrebbe necessità, per salvarsi, di subire una trasfusione di sangue. Ma i suoi genitori, che sono testimoni di Geova, ritengono la trasfusione peccaminosa, e non autorizzano l'intervento. Il figlio è un ardente seguace della religione dei genitori e, ascoltato direttamente dal giudice – che, allo scopo, un po' irritualmente, si reca all'ospedale in cui il ragazzo è ricoverato – si dichiara pronto anche a morire in conseguenza alla sua rinuncia.
E tuttavia la legge impone al giudice di disporre comunque la salvaguardia del minore.
Insomma: in conclusione del caso giudiziario, sembrerebbe prevalere la razionalità contro il fanatismo religioso.
Eppure, a dispetto di questa morale, il racconto introduce sottilmente alcune perplessità.
Se anche certi divieti religiosi possono apparire assurdi allo spettatore di nessuna o di altra fede, è lecito violare le convinzioni di un ragazzo che, anche se minore, dimostra intelligenza, maturità di giudizio, violando perfino l'integrità del suo corpo?
E poi: se l'idealismo del ragazzo può apparire ingenuo (ma non riguarda soltanto la preziosità insostituibile del suo sangue, o l'obbligo della fedeltà nel matrimonio, ma anche il rifiuto della tortura come strumento di indagine, o il culto della poesia e delle musica), ma se anche i suoi ideali sono ingenui, non sono comunque preferibili alla perdita di ogni ideale, alla rassegnazione all'esistente?
E la vita, considerata soltanto laicamente e razionalmente, non appare in fondo più povera? Di questo, sembrerebbe una riprova la vita privata del giudice, che cade in preda allo stress e alla depressione, perché suo marito dichiara apertamente di volerla tradire con una ragazza, visto che il loro matrimonio è ridotto a una consuetudine priva di passione.
Ma d'altra parte: il modo in cui il ragazzo, una volta guarito, dichiara il suo amore al giudice che comunque gli ha salvato la vita, e la insegue, la perseguita, non è un fanatismo che si è trasferito da Dio a una persona in carne ed ossa? E l'inflessibilità con cui la donna lo respinge non è un po' una replica della fredda violenza con cui la legge si è imposta sul suo corpo?
Sono, beninteso, domande, e non affermazioni; a cui ogni spettatore è lasciato libero di dare, se vuole, una risposta, perché il racconto non gli impone un giudizio conclusivo. È chiaro però che il film contiene, sia pure implicito, “tra le righe”, tutto un dibattito filosofico-morale.
Ma se esso ci coinvolge, è perché i personaggi risultano sempre veri, autentici, coerenti con il loro carattere in tutti gli sviluppi dell'azione. Grazie anche ai loro eccellenti interpreti: la magistrale Emma Thompson nel ruolo del giudice, ma anche Stanley Tucci nel ruolo del marito, e un giovane attore, straordinario, Fionn Whitehead, nel ruolo del ragazzo.
Da vedere.
Gianfranco Cercone
(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 27 ottobre 2018
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