Sono da sempre contrario alla pena di morte. La considero un atto di violenza di Stato retaggio di un passato da superare. Un segno di debolezza dell’autorità, con ormai scarsa efficacia deterrente e perciò unicamente improntato alla vendetta. Un atto in insanabile contraddizione con il principio della inviolabilità della vita umana.
Sono stato convintamente contrario alla esecuzione di Saddam, in quanto la consideravo un errore politico. Ma confesso di essere un po’ infastidito dal conformismo supponente e buonista che affiora dalle unanimi prese di posizione in Italia e in Europa. La questione della pena di morte, infatti, non può essere affrontata considerando gli Stati che la praticano solo come dei brutali assassini fuori dal tempo. La repubblica italiana si fonda sull’esecuzione sommaria di Benito Mussolini e della incolpevole Petacci: come possono personaggi politici coevi di quella esecuzione e quanti sul mito della resistenza e della sua vittoriosa conclusione – seppur con il determinante intervento americano – hanno costruito nei decenni successivi la loro carriera politica senza alcuna “autocritica” su quella fucilazione, stracciarsi le vesti per l’impiccagione di Saddam (dopo un processo e in un paese in cui la pena di morte ancora appartiene al senso comune)? Chi può dimenticare che fino agli settanta in Francia sibilava la ghigliottina? O che nel codice penale militare italiano ancora pochi lustri fa era prevista la pena di morte? E come non sottolineare che nel regno pontificio la pena capitale era ampiamente comminata e che solo Paolo VI ha tolto dai codici vaticani la pena di morte, seppur non più utilizzata?
Non dico questo per giustificare la pena di morte o perché giudico inutile o impossibile battersi in sede politica per la sua abolizione, ma perché ritengo necessario, anche per avere successo, non sostituire con i richiami emotivi le valutazioni politiche, che devono fondarsi sulla realtà storica e non sulle mistificazioni.
Il fatto che in alcuni stati degli Usa la pena di morte sia ancora praticata deve certo fare riflettere su quella che – anche se solo da qualche decennio – nell’U.E si considera ormai una estremizzazione giuridicamente inammissibile del diritto penale, ma non può fare concludere che oggi, anche rispetto alla pena di morte, il problema sia costituito dagli Usa o –peggio– dall’amministrazione Bush. L’emergenza – in senso quantitativo e qualitativo – è e rimane quella dei regimi antidemocratici, a partire da Cina e Iran, che stanno ai primi due posti nella macabra classifica delle esecuzioni e che usano la pena di morte come strumento di persecuzione politica e di minaccia civile. Vari esponenti del governo e della maggioranza hanno usato parole di sdegno e riprovazione contro il governo americano e irakeno per l’esecuzione di un dittatore sanguinario come Saddam. Se, in vista della campagna in sede Onu, non ne useranno di altrettanto chiare e sdegnate contro i paesi che non solo giustiziano i criminali, ma uccidono anche le adultere o i dissidenti politici, allora la campagna per la moratoria sarà inevitabilmente e inammissibilmente segnata da un pregiudizio (in Italia comodissimo e molto poltically correct) anti-Usa.
Benedetto Della Vedova
(per 'l Gazetin, gennaio 2007)