Una delle qualità che caratterizzano di solito un racconto di valore artistico, e che al cinema, come altrove, si ritrova raramente, è l'ambiguità. Rara a trovarsi perché i film tendono ad assecondare l'abitudine dell'intelletto a schematizzare fatti e personaggi, per esempio a distinguere nettamente e immediatamente le azioni giuste e quelle sbagliate, e i personaggi buoni e quelli cattivi, come se questi ultimi fossero costitutivamente, e cioè per loro natura, destinati a essere tali, e dunque facili da riconoscere.
Il film dell'autore giapponese Kore-eda, il cui titolo italiano è: Un affare di famiglia, per il quale ha vinto la Palma d'Oro all'ultimo festival di Cannes, fa dell'ambiguità il principio costruttivo di tutto il racconto, e lo persegue con tanta convinzione da riuscire a non scioglierla mai, quell'ambiguità, da sospendere fino all'ultimo il giudizio sulle vicende, anche estreme, che racconta.
L'ambiguità è già racchiusa in una delle scene introduttive del film. È ambientata all'interno di una casa – una casa fatiscente, poco più di una baracca –, in una stanza affollata di mobili e soprammobili d'accatto, tanto da somigliare al negozio di un rigattiere, dove un gruppo di persone di diversa età, strette strette l'una all'altra, accovacciate a terra secondo il costume giapponese, consuma la cena. Si capisce presto che il polo d'attrazione di tutto il gruppo è una vecchia signora, chiamata la nonna, che gli altri sembrano assistere affettuosamente, tanto che a un primo colpo d'occhio possiamo scambiarli per un tradizionale gruppo familiare, di gente povera ma capace di calore umano (tanto più che alla cena è fatta partecipare una bambina, trovata tutta sola, infreddolita, per strada).
Eppure qualche indizio contraddice questa impressione: come quelle bocche avide che sorseggiano il brodo dalle ciotole, o la sporcizia della vecchia che si taglia le unghie dei piedi proprio nel luogo e nel momento in cui si mangia. Alcuni insorgono, sia pure bonariamente, contro la maleducazione della signora, ma lei non si cura di quelle proteste, certa com'è di avere in pugno quella gente grazie alla pensione che riceve dopo la morte del marito, e che in quella casa, capiamo presto, è l'unica entrata certa.
Saremmo allora indotti, secondo un'abitudine automatica, a contrapporre l'apparenza alla realtà, a concludere che l'affetto familiare è simulato per interesse economico (tanto più che la bambina, che sembrava ospitata per spirito caritatevole, è presto ammaestrata a commettere quei furti nei negozi e nei supermercati con cui sopravvivono alcuni membri del clan).
Ebbene il film di Kore-eda sembra fatto apposta per contraddire questa conclusione. Non viene fatto alcuno sconto alla della descrizione del gruppo, la descrizione non è mai edulcorata: se ne evidenzia il cinismo, l'attitudine al calcolo bieco, senza scrupoli; l'avidità di guadagno, la balordaggine di chi vive in uno stato di emarginazione, fuori delle regole civili, senza nemmeno più averne coscienza. Ma allo stesso tempo il film riesce a farci credere che tra alcune di quelle persone ci sia vero affetto, alcuni slanci di autentica solidarietà, perfino per quella bambina, strumentalizzata per rubare, ma sottratta a una famiglia “perbene”, ma arida, anaffettiva, dove veniva picchiata.
Cosicché è arduo decidere se prevalga nei protagonisti l'egoismo o l'amore, tanto che ne dubitano loro stessi: sradicati dalle loro vere famiglie e dalla società, vorrebbero credere disperatamente di avere trovato un rifugio l'uno nell'altro, ma in certi momenti la fiducia è raggelata dal sospetto di essere soltanto usati.
Forse Un affare di famiglia – un film dove la descrizione prevale sul racconto, perché i fatti narrati sono scarsi – ha il difetto della ridondanza: che cioè si soffermi sul ritratto di personaggi già esaurientemente delineati.
Ma delineati uno per uno così bene, con tale precisione e tale delicatezza, nel corpo, nei gesti e nelle azioni, che quella descrizione è sempre di alta qualità.
Gianfranco Cercone
(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 22 settembre 2018
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