Se n’è andato anche Bob Lienhard. Un gran giocatore, una magnifica persona. Un americano che sapeva parlare il dialetto brianzolo. Uno che aveva scelto con il cuore l’Italia. Da New York a Cantù, per aiutare a far grande la squadra di quel piccolo centro, Davide contro Golia. Era un pivot forte fisicamente e tecnicamente, un giocatore completo e di squadra. E, come detto, le sue qualità umane erano straordinarie.
Con lui se ne va un altro pezzetto della nostra vita, della nostra storia individuale e collettiva. Davvero è stato un privilegio averlo visto giocare e poterlo conoscere.
Classe 1948, nativo del Bronx, il grande Bob, dopo il college disputato con la canottiera dei Bulldogs della University of Georgia (e prima ancora come high school la Rice di Manhattan), arrivò nel Bel Paese nel 1970, ventiduenne di immane prestanza fisica e belle speranze, rinunciando per sempre alla NBA dove forse sarebbe anche potuto andare (era stato scelto al quarto giro, n. 61 totale, dai Phoenix Suns). Il provino cui lo sottopose il Simmenthal del Principe Cesare Rubini, allora dominante con Varese (e Cantù), non andò però come avrebbe desiderato il pivottone della Grande Mela. Ma Cantù aveva fiutato l’affare e si fiondò sui magnifici 208 cm (x 110 kg) di Bob. E fu leggenda… Con Arnaldo Taurisano, alias Mastro Tau, in panchina, il Charlie (Recalcati) a sforacchiare retine e il Pierlo Marzorati a menare le danze e a volare in contropiede, il nostro caro Bob era il totem difensivo e offensivo di quell’irripetibile gruppo, baluardo, rimbalzista, blocchi granitici, passaggi e, senza mai essere stato un mangiapalloni, anche punti nelle mani.
E furono lo scudetto 1975, le tre Korac di fila 1973-1974-1975, l’Intercontinentale 1975 e due Coppe delle Coppe, edizioni 1977 e 1978. Oltre 3300 i punti realizzati da Lienhard in quasi 200 partite con il team allora gestito dalla illuminata famiglia Allievi.
Quando Bob decise di divenire cittadino italiano non fu tuttavia riconosciuto dal punto di vista cestistico come un giocatore nostrano. Non solo non poté mai giocare in Nazionale (e ci avrebbe fatto comodo un giocatore di quello spessore fisico e tecnico: fu uno dei pochi a impaurire, seppur per un attimo, un giocatore della tempra di Art Kenney), addirittura dovette ripartire dalle serie minori, vale a dire la C in quel di Treviglio. La passione per la palla a spicchi, l’amore per la coniuge, per la Brianza e l’Italia, lo fecero a ogni modo rimanere sul nostro suolo. Come giocatore avrebbe meritato un trattamento migliore (senza pensare all’autolesionismo di certe sponde federali).
Bob aveva mani intelligentissime, anche fuori dal basket. Si era ristrutturato la casa canturina tutta da solo. La sua mente sapeva applicarsi agli schemi del basket come alle cose della vita quotidiana: laureato in Economia e commercio, esperto d’informatica, geniale artigiano autodidatta. E, con la sua forte personalità, simpatico, disponibile, tanto generoso e gentile. Lo andai a trovare a casa sua per una intervista e mi dedicò, con la moglie, l’intero pomeriggio (ecco il link dell’articolo, reperibile anche nelle note di Wikipedia). Lo invitai a parlare di basket nel mio paese, Cesano Boscone, e lui venne e raccontò e fu una serata magnifica.
Ciao, Bob. Ogni tuo gancio, destro e sinistro, direttamente al canestro o con l’ausilio del tabellone, ogni appoggio, andrà sempre a segno, ogni passaggio sarà un assist. Ovunque tu sia.
Riposa in pace, grande Bob.
Alberto Figliolia