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Giosetta Fioroni, viaggio sentimentale 
Al Museo del Novecento di Milano fino al 26 agosto
14 Agosto 2018
 

Giosetta Fioroni ha attraversato gli ultimi sessant’anni non temendo d’intrecciare la sua vita di donna con la curiosità dell’artista, il desiderio di sperimentare linguaggi e tecniche con la necessità di trasmettere l’emozione e quella unicità – propria di ogni essere umano – che solo i veri artisti sanno comunicare.

Nell’effervescente Roma del 1968 Plinio De Martiis aveva ideato per la sua galleria, La Tartaruga, il Teatro delle mostre: ogni giorno un artista presentava un’azione. Giosetta Fioroni (Roma 1932) inaugurò questa serie di eventi mettendo in scena una performance, la Spia attica: i gesti quotidiani di una donna (l’attrice Giuliana Calandra), chiusa in una stanza, potevano essere osservati attraverso le lenti di un piccolo cannocchiale rovesciato, che allontanava quindi la scena degli occhi dello spettatore, rendendola simile a un sogno o a un vagheggiamento partorito dalla fantasia. Quell’opera racchiude molto della poetica di Giosetta Fioroni: l’autobiografia, la memoria, il sogno e la quotidianità rappresentano infatti l’animo della sua estetica. Nel 1962 l’artista definì come stratificazione emotiva la genesi delle sue composizioni: «Dispongo le forme nello spazio del quadro nel modo rapido e sintetico con cui esse si presentano attraverso il ricordo, cercando di fare un montaggio di vari elementi presi in differenti direzioni e strati della memoria».

In quegli anni cominciano sulla tela forme semplici, elementari come le stelle, i cuori, la luna, gli alberi o le casette stilizzate, dipinte accanto a simboli, ideogrammi, frecce, puntini, segni e parole. Molti di questi ricordi risalgo all’infanzia, a quando, da bambina, giocava con la creta di Mario Fioroni, il padre scultore, ma si riallacciano anche agli spettacoli della madre, Francesca Brabanti, pittrice e marionettista. Altre suggestioni provengono dalla scoperta dei teatrini di Guido Ceronetti e delle stupefacenti scatole in cui l’artista americano Jodeph Cornell aveva raccolto un potente immaginario fatto di scarti e di piccole cose. Anche la scelta di usare colori industriali, uno dei quali ha reso i dipinti di Giosetta Fioroni degli anni Sessanta immediatamente riconoscibile, ha una spiegazione simile: «L’argento è memoria, recupero, sospensione di tempi differenti».

Una mostra antologica al Museo del Novecento di Milano, Giosetta Fioroni, viaggio sentimentale”, curata da Flavio Arensi ed Elisabetta Bottazzi, racconta fino al 26 agosto l’intero complesso percorso dell’artista, lungo sessant’anni, attraverso 150 opere. Si parte dai lavori astratto-informali del periodo della formazione, sul finire degli anni Cinquanta, ai celebri Argenti della prima maturità, che lo scrittore Goffredo Parise, il compagno di una vita, definiva Diapositive di sentimenti in un articolo pubblicato nel 1965. Viene poi indagato il recupero di un vivere quotidiano e magico negli anni Settanta, accanto a Parise nella campagna veneta, per arrivare fino alle ultime tele, di grande formato, che raccontano il mondo della magia e della trasformazione, temi sempre cari a Giosetta Fioroni, in opere come War e Marilyn Manson, del 2009, o il Ramo d’oro, del 2014, che chiude la rassegna.

La vita e l’arte di Giosetta Fioroni si sono nutrite di confronti con personalità straordinarie. A Parigi, tra il 1959 e il 1963, affitta un appartamento da Tristan Tzara e, non ancora trentenne, entra in contatto con il mondo letterario, filosofico e artistico, frequentando Yves Klein, Alberto Giacometti, Victor Brauner, Michel Tapié e Pierre Klossowski, anche se l’influenza artistica maggiore la eserciteranno i lavori dei pittori americani che circolano nella ville lumiére, Joan Mitchell, Sam Francis e Jim Dine. Al Petite Dôme di Montparnasse si trova spesso a bere whisky con Samuel Bekett.

Tornata a Roma, frequenta il Caffè Rosati in piazza del Popolo, insieme ad altri artisti che, come lei, sono interessati a usare nelle loro opere le immagini prodotte e diffuse dalla cultura di massa, anche se ognuno lo farà a modo suo. Lì frequenta Mario Schifano e Franco Angeli, Tano Festa e il fratello, Francesco Lo Savio, Fabio Mauri e Giuseppe Uncini: insieme passeranno alla storia come la Scuola di piazza del Popolo. Ma, mentre Schifano mette in scena la pubblicità e la segnaletica stradale, la Fioroni ne dipinge un’interpretazione onirica, psicologica ed enigmatica. Partecipa alla Biennale di Venezia del 1964, che vede il trionfo di Robert Rauschemberg e della Pop art, ma è di nuovo un artista americano che conosce tramite Plinio De Martiis, Cy Twomly, a fornirle sempre nuovi spunti per tutti gli anni ’60. Le frequentazioni che predilige sono tuttavia quelle con poeti e gli scrittori: dal 1964 inizia la storia d’amore con Goffredo Parise che, anche se in qualche momento è tormentata, durerà fino al 1986, concludendosi solo con la scomparsa del grande scrittore dei Sillabari. Tra gli amici di Giosetta Fioroni ci sono Andrea Zanzotto, Sandro Penna e Paul Celan, Alberto Arbasino, Nanni Balestrini e Franco Marcoaldi, che individuerà in modo puntuale uno degli aspetti più sinceri della sua poetica: «Ciò che mi ha sempre incantato in lei è l’assoluta grazia nel nascondere le ferite, l’invidiabile attitudine nel camuffare in briosa quanto delicata gaiezza l’angoscia della memoria; quel suo sfiorare leggero l’impronta di tragedie lontane». Hanno qualcosa di poetico anche i titoli che inventa per le sue tele: Immagine del silenzio è quello del quadro più importante che espose alla Biennale nel 1964.

Le strade che Giosetta Fioroni percorrerà con esiti personalissimi erano state aperte già nel 1953, quando giovanissima iniziò a frequentare i corsi di Toti Scialoja. Entrata in quell’aula e in quei corsi, iniziò un percorso entusiasmante che dal teatro russo d’avanguardia di Stanislavskij e Majerchol’d, passando per il cinema di Buster Keaton, la condurrà alla scoperta di Jackson Pollok e Willen de Kooning: «Le sue lezioni sono state per me, e non solo per me, una vera e propria iniziazione erotica all’espressività». È grazie a Scialoja, tra l’altro, che stringe amicizia con Alberto Burri e Alexander Calder. E anche quando rivisita la pittura dei maestri, dipingendo omaggi a Botticelli, Simone Martini, Piero di Cosimo e Pablo Picasso, ne sfalda e moltiplica le forme perché, come ha sottolineato Emanuele Trevi, nelle opere della Fioroni «da un lato c’è il mestiere, inteso come padronanza tecnica e disciplina, dall’altro si annidano la sorpresa, l’illuminazione, l’allargamento improvviso della conoscenza».

La manica lunga al piano terra del Palazzo dell’Arengario accoglie un suggestivo ritratto dell’artista con il tema teatrale del vedere-vedersi ed essere visto, sviluppato grazie all’esposizione di oggetti, foto e documenti: dalla Spia ottica del 1968 (ricostruita attraverso documenti dell’epoca) fino alla serie fotografica di Sex e Altra ego, Giosetta Fioroni – in collaborazione col fotografo Marco Delogu – da osservatrice diviene protagonista, mettendosi al centro della scena con una meditazione sul sé e sul rapporto col tempo. In questa sezione sono rappresentati anche i Teatrini, realizzati a partire dal 1969 e alcuni abiti in ceramica che raccontano del sodalizio trentennale fra la Fioroni e la Bottega ceramica Gatti di Faenza.

 

Maria Paola Forlani


Foto allegate

Giosetta Fioroni, Ritratto
Giosetta Fioroni,
Casero Fioroni
Giosetta Fioroni
Casero Fioroni
Giosetta Fioroni,
Giosetta Fioroni,
Giosetta Fioroni,
Giosetta Fioroni,
Goffredo e Giosetta, 1970
 
 
 
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