Quel volo dell'immaginazione per cui assistendo a un film ci si astrae, almeno in parte, dall'ambiente in cui ci si trova; ci “si immerge” nel racconto; è un'esperienza semiallucinatoria, può essere perfino deprecata come un'evasione, una fuga dalla realtà. Capita però che rientrando da quel volo in noi stessi, nella realtà, ci si accorge di avere appreso qualcosa. E non perché ci è stato rivolto un insegnamento esplicito. Se una morale si è depositata in noi, accade di solito per via subliminale, senza che ce ne accorgiamo. Si tratta come di un piccolo tesoro nascosto nelle spire del racconto.
Vorrei riferire questa premessa a un film che è il remake, il rifacimento attuale, di un film hollywoodiano che negli anni Settanta è stato molto popolare.
Si tratta di Papillon, il film che nella sua prima versione fu interpretato da Steve MacQueen e Dustin Hoffman e diretto da Frederick Schaffner.
Va subito detto che la nuova versione del film, diretta da un regista danese, Michael Noer, non è superlativa. Gli attori – mi riferisco ai protagonisti piuttosto che ai comprimari, a volte migliori dei primi – sono modesti. Il trucco, che nell'ultima parte del film dovrebbe suggerire il passaggio degli anni, li rende a momenti caricaturali. Il ritmo veloce e uniforme della prima parte tende a togliere rilievo drammatico agli episodi. Manca anche all'autore l'audacia – se di audacia tuttora si tratta – di rendere esplicito il sottotesto omosessuale del racconto. Si limita a suggerirlo con più evidenza che nella prima versione.
Tuttavia, rilevati questi difetti – e altri se ne potrebbero aggiungere, come una certa convenzionalità, la mancanza di estro – va riconosciuto, che grazie anche alla solidità della sceneggiatura, di cui è coautore il grande Dalton Trumbo, il film mantiene la suggestione di quei racconti popolari capaci di suscitare di volta in volta angoscia, raccapriccio, ansia per le sorti dei personaggi; a momenti di rallegrare, più spesso di commuovere.
La vicenda, ispirata a un fatto realmente accaduto, negli anni Trenta, e tratta da un best seller autobiografico, riguarda il caso di un giovane francese, uno scassinatore professionista, accusato ingiustamente di un omicidio, e per questo condannato all'ergastolo da scontare in un carcere in un'isola della Guyana francese.
È un carcere durissimo, che prevede massacranti lavori forzati, dove dilaga la corruzione delle guardie, e dove la brama di procurarsi dei soldi per corrompere, rende i detenuti spietati gli uni contro gli altri.
In un contesto di rapporti umani così crudeli, spicca per contrasto l'amicizia che è quasi l'amore, o senz'altro un amore, tra il protagonista e un altro detenuto, condannato, in questo a caso a ragione, come falsario. Un'amicizia purissima, e cioè perfettamente leale, fino all'eroismo, così esaltata dal racconto da sembrarci irreale, come capita a volte nei melodrammi. E tuttavia è proprio il contesto che in parte la giustifica e la rende quasi verosimile.
Perché ciò che ci fa apparire quel carcere così mostruoso, più ancora che le sue efferatezze, le esecuzioni pubbliche tramite ghigliottina, o quelle sommarie, le tremende punizioni disciplinari, è la “filosofia” che presiede a quel carcere. Per la quale i detenuti sono irrecuperabili, si dice che non sono nemmeno più cittadini francesi, e l'unico trattamento possibile nei loro riguardi, è l'annientamento, se non fisico, almeno morale.
Così l'amicizia (o l'amore) rappresentano come una strenua resistenza, la dimostrazione, contro il Potere vigente, di essere rimasti ancora umani.
Dicevo dell'insegnamento che si trova a volte dissimulato in un racconto, che si riceve inconsapevolmente.
Papillon racconta di diversi tentativi di evasione dal carcere, del ladro e del falsario, ai quali si unisce anche un giovane assassino, reo confesso. Ebbene, io credo che ogni spettatore, qualunque sia la sua opinione sul carcere, in cuor suo non possa che simpatizzare con gli evasi e sperare che ce la facciano. Non soltanto perché si simpatizza di solito con i protagonisti di un racconto; ma perché si percepisce che attraverso quel carcere lo Stato si comporta con una logica così criminale, da perdere ogni legittimità, ogni autorità morale, nei confronti di chi incarcera.
Gianfranco Cercone
(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 7 luglio 2018
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