Il sentimentalismo, come si sa, è un'amplificazione retorica dei sentimenti, che risultano allora così esasperati da sembrarci irreali; a volte, perfino, involontariamente caricaturali.
La retorica del sentimentalismo si direbbe estranea a un raffinato autore inglese, Terence Davies, che i più cinefili degli ascoltatori ricorderanno almeno per due film molto belli: Trilogia e Voci lontane, sempre presenti, e che ora ha diretto un film biografico, dedicato alla poetessa americana dell'Ottocento Emily Dickinson, intitolato A quiet passion (“Una passione tranquilla”).
Estraneo al sentimentalismo perché, per esempio, se si considera la prima parte del film, dedicata alla gioventù della Dickinson, ebbene le virtù più notevoli del racconto sono piuttosto l'asciuttezza, la capacità di sintetizzare in pochi quadri, curati nei minimi dettagli, tutto un ambiente sociale e insieme un paesaggio interiore, la personalità intima della protagonista del racconto, senza che risulti mai artificiosa.
Educata in un collegio religioso, dove la Dickinson del film era invisa alla direttrice, non perché assumesse delle pose platealmente trasgressive o blasfeme, ma perché, fedele alle proprie sensazioni, sincera, non voleva simulare una devozione a Dio che non provava; ritornata in famiglia – una famiglia, almeno per quanto riguarda i genitori, puritana, severa, dove però almeno godeva della benevola indulgenza del padre e della complicità con la sorella – la Dickinson sembra trovare una via di fuga ai costumi repressivi che le sono imposti (particolarmente a lei, come donna), all'aridità spirituale che la circonda, nel culto dell'arte; e non soltanto della poesia, che pratica un po' clandestinamente scrivendo la notte (dopo aver ottenuto per questo un permesso speciale dal padre) e ricavandone in vita grame soddisfazioni mondane (a causa – suggerisce il film – del maschilismo della società letteraria dell'epoca), ma anche nel culto della musica, che suona, ma soprattutto ascolta all'Opera, con la totale partecipazione, se mi si passa un'immagine, di un animale che rinchiuso nell'oscurità trovi solo in questo il suo vero nutrimento, la sua luce.
Come anticipavo, il capitolo del film dedicato a questa prima fase della vita della Dickinson è molto bello: essenziale, preciso e profondo. Ed è altrettanto bello lo spartiacque rispetto alla seconda parte del film. Con un procedimento che le immagini digitali hanno reso consueto, ma che qui acquista un significato speciale, i volti di tutti i familiari della Dickinson e di lei stessa, si deformano progressivamente, come a imitare l'azione devastatrice del tempo; ma anche, manifestamente, l'effetto distruttivo che una mentalità può produrre sulla fisionomia del viso, cosicché la brillantezza dello sguardo si spegne, il colorito si fa quasi cadaverico, la bocca si irrigidisce in una smorfia, e la pressione dei desideri conculcati dilata gli occhi quasi follemente.
Del resto, la seconda parte del film più che alla vocazione letteraria della Dickinson è dedicata all'aspetto più privato della sua vita, alla rinuncia all'amore, dovuta certo alla repressione familiare, ma anche a un'assuefazione a quella rinuncia, mortifera ma anche, forse, in fondo, rassicurante, protettiva. Cosicché quando un pretendente si fa avanti – si tratta di un lettore appassionato – lei, irresistibilmente, a priori, gli si nega.
Anche questa seconda parte è tutt'altro che priva di sottigliezze psicologiche, ma l'insistenza sui temi della sofferenza amorosa, e sul dolore delle malattie che ne sono oscuramente la conseguenza, sfiora il rischio dell'enfasi melodrammatica, e fa rimpiangere la sinteticità più incisiva della prima parte del film.
Si tratta comunque di un'opera di qualità, certamente un film da vedere, che si avvale di alcune ottime interpretazioni. Ricordo in particolare Keith Carradine nel ruolo del padre della Dickinson, e Cynthia Nixon nel ruolo della scrittrice in età matura.
Gianfranco Cercone
(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 23 giugno 2018
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