Non mi era mai capitato di toccare da vicino la storia e di viverne direttamente la tragedia. Ma ai confini, tra Trentino-Alto Adige, Friuli-Venezia Giulia e Veneto, la storia diventa materia viva e la guerra si tocca con mano. Scavi lunghi e profondi e postazioni di schieramenti, segnano il territorio, una lunga striscia di terra che divideva i nostri soldati da quelli austriaci.
Pagine e pagine, lette e spiegate non rendono la realtà come una scritta che indica un rifugio o la presenza di un bunker. Il territorio si mette a nudo e il dramma vissuto appare in tutta la sua portata; le parole si vestono di realtà, di una terribile realtà che nelle cifre mostra il numero dei morti, e la morte incombe feroce, mentre avvolti dal “Silenzio” di Redipuglia se ne tenta un conto.
Il 28 giugno del 1914 l’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono di Austria-Ungheria e sua moglie Sofia trovarono la morte nell’attentato di Serajevo, per mano di Gavrilo Princip, uno studente appartenente ad un gruppo irredentista bosniaco. Il 28 luglio l’Austria-Ungheria dichiarava guerra alla Serbia. Era l'inizio della Prima Guerra Mondiale.
1918-2018. Cento anni sono trascorsi ma nulla si cancella se la memoria ricorda, se l’occhio attento scruta, guarda e scopre la tragedia della “Grande guerra” che tra tutti i popoli partecipanti, portò via più di 10 milioni di uomini. Il territorio è disseminato di ricordi: scritte, lapidi, monumenti, ossari, trincee, musei, memoriali, bunker e postazioni di mitragliatrici, testimoniano ai nostri confini la “Grande Guerra”, così detta per il gran numero di popoli che vi parteciparono.
La guerra è morte, devastazione, miseria, dolore e lacrime che nessuno spazio potrà mai contenere. Tra l’entusiasmo degli interventisti, la guerra dispiegò forze, distrusse e lapidò migliaia e migliaia di uomini, lasciando vuote le case, vedove le donne e orfani i bimbi, rappresentati da Galileo Chini in “Le vedove”, dove il nero funereo esemplifica la tragica situazione.
Giusta la commemorazione della fine della “Grande Guerra”, affinché nulla si dimentichi, ma questi luoghi implicano un netto rifiuto di tutto ciò che è morte, in nome di tanti giovani che, al di là della propria appartenenza, in quella guerra lasciarono la vita: Morto. Lacerato. Smembrato. / Mamma, cosa ne dici? Il figlio ti hanno preso! / Tu non lo vedrai mai più. Neppure il suo cadavere. / Forse oggi riceverai una lettera: / “Sono sano, sto bene”. / Poter piangere, gridare, urlare! / Più non posso mandare giù tutto ciò, non ci riesco più! / Più non posso stare qui seduto tranquillo! / Tutto finisce. Tutto ha un limite. / Lanciarsi con la testa contro questa roccia, / fino a stramazzare al suolo, fino a perdere conoscenza. (Robert Skorpil, ufficiale austriaco, Pasubio 1916-1918).
I soldati sono tutti uguali di fronte alla morte e i versi o il racconto di chi visse l’orrore della guerra e la disperazione di una morte non chiesta, non voluta, esemplificano ancora oggi la realtà di tanti giovani che in guerra lasciano la vita e la memoria va al giovane Adelchi, che nel momento sublime della morte, fa riflettere suo padre, Desiderio, sul perché di una guerra inutile che gli ha strappato la giovinezza. Ancora una volta i linguaggi dialogano e la letteratura intreccia l’arte per invitarci a riflettere sulla vanità della guerra. Squarcia la realtà la poesia di Ungaretti che esplode nell’animo come la mina di Giulio Aristide Sartorio: Di che reggimento siete / fratelli? / Parola tremante / nella notte / foglia appena nata / Nell'aria spasimante / involontaria rivolta / dell'uomo presente alla sua / fragilità (Fratelli).
La guerra è aberrazione, è “il sonno della ragione” che genera mostri, è la negazione della vita.
Di fronte ai monumenti che ne perpetuano la memoria non si può restare indifferenti. Si viene sopraffatti da una grande emozione e i morti passano, visi indefiniti, evanescenti, corpi sopraffatti giacenti gli uni accanto agli altri stretti in muta preghiera come nella “Grande Guerra” di Marino Marini.
Nessuna parola nutre il pensiero di fronte ai nomi, che ricordano i morti di ogni età, molti, infiniti morti che la memoria si rifiuta di contenere in nome della vita.
Sacrari, ossari, scritte sparse sul territorio popolano i nostri confini, conservano intatta la memoria del sacrificio dei nostri soldati, dei nostri giovani.
È davanti al monumento ai “Ragazzi del ’99”, che l’animo non regge, il passo si ferma e un tumulto assale lo spirito che si rifiuta di accettare un sacrificio troppo grande per essere contenuto e in risposta emerge a simbolo, potente il rosso-sangue “Sulla guerra” di Dodero. Diciotto anni appena compiuti e falciati da una guerra implacabile. Emerge dal profondo del cuore, come un grido lacerante, l’appello del polacco Ernst Friedrich (1894-1967), forse utopico ma possibile: «Io mi rifiuto! La nostra volontà è più forte della violenza, della baionetta e del fucile! Ripetete queste parole: “Io mi rifiuto!”. Mettetele in pratica, e in futuro la guerra sarà impossibile. Tutto il capitale del mondo, i re e i presidenti non possono nulla contro tutti i popoli che insieme gridano: NOI CI RIFIUTIAMO!» (Ernst Friedrich, Guerra alla guerra, 1924).
Prevale la commozione, mentre il Piave scorre lento davanti agli occhi “calmo e placido” in un paesaggio meraviglioso e ci riporta al lontano 24 maggio, mentre troneggia sul Montello un Sacrario che custodisce migliaia di nomi.
I percorsi vanno in ogni direzione, cimeli, rifugi, trincee, postazioni costruiscono la storia, la nostra storia.
L’animo affranto stenta a staccarsi e nel silenzio che incombe non trova risposte ai tanti perché delle guerre. Forse la storia non è maestra di vita, non insegna sufficientemente il valore della vita, se le guerre si sono ripetute e continuano a ripetersi in ogni angolo del nostro pianeta!
Caporetto, altopiano del Carso, Monte Grappa, altopiano di Asiago narrano il dolore di quanti vi morirono.
Nemmeno il paesaggio verdeggiante e pieno di vita e di luce riesce a lenire il dolore che provoca nel monumento eretto a ricordo la presenza di un -elmetto-.
Anna Lanzetta