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Gianfranco Cercone. “La terra di Dio” di Francis Lee
03 Giugno 2018
 

È quasi una regola matematica: nella durata limitata di un film, alla rarefazione, alla scarsità dei fatti raccontati, corrisponde un approfondimento dell'analisi dei comportamenti, delle psicologie dei personaggi. Insomma: lo spazio che è sottratto all'“azione”, all'intrigo, ai colpi di scena, alle peripezie romanzesche, è dedicato di solito all'introspezione; a valorizzare il “fattore umano” della storia narrata. Ciò, beninteso, quando l'autore sia dotato di quell'intuito che gli permetta di leggere nell'animo dei suoi personaggi.

Ora, questa capacità, questo talento, appartengono senz'altro, a mio parere, al regista inglese Francis Lee, la cui opera prima, il cui titolo italiano è: La terra di Dio, esce in questi giorni nelle sale italiane, dopo essere stata presentata l'anno scorso al Sundance Film Festival, che, come si sa, è il più importante festival internazionale di cinema indipendente.

L'ambientazione del film dà già un'idea dell'austerità del racconto. La terra di Dio si svolge in una fattoria isolata nella campagna inglese. La vita di chi ci abita e ci lavora è allo stesso tempo molto faticosa e molto monotona, quasi esclusivamente dedita alle attività dell'allevamento e dell'agricoltura.

Si sa che spesso in un racconto i tratti dell'austerità, della monotonia servono a introdurre per contrasto un elemento eccezionale o meno ordinario. E nella “Terra di Dio” tale elemento è l'omosessualità. Il ragazzo che ha a lungo convissuto nel casolare soltanto con il padre dispotico (che diventa tanto più dispotico quando, a un certo punto, si ammala) e con la nonna (che appare brusca e severa, anche se, a ben guardare, in fondo in fondo, è indulgente e quasi affettuosa), il ragazzo sembra avere come unico svago, oltre a qualche birra bevuta in un pub in paese, dei rapporti omosessuali, ma del tutto occasionali, senza nessuna implicazione affettiva, perfino brutali. Del resto, a lungo non appare in grado di approfondirli, per il suo carattere, cupo e scontroso, e probabilmente per la sua mentalità, che però non rivela, essendo di poche parole.

Quando però nella fattoria la famiglia si trova costretta ad assoldare un lavorante rumeno, il ragazzo vive la violenza emotiva, quasi il trauma, di un innamoramento per un altro uomo.

Come anticipavo, La terra di Dio è in sostanza uno studio di caratteri e di comportamenti (in primo luogo del carattere e del comportamento del protagonista), e narra quel processo per cui dal ripudio dei propri sentimenti – per il quale l'attrazione si trasforma in avversione, in inimicizia; dal disgusto per se stessi, da un profondo disorientamento, si giunge all'accettazione commossa della necessità dell'amore.

L'autore dimostra quelle qualità di finezza psicologica necessarie in particolare a questo genere di racconto, intimista. Ma riesce anche a far interagire, sottilmente, l'ambiente con la vicenda: nel senso che la durezza, l'aridità, la brutalità, che sono proprie delle condizioni di vita dei personaggi intorno al protagonista, giustificano la sua inibizione sentimentale.

Si tratta di un'opera prima riuscita, da vedere.

 

Gianfranco Cercone

(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 2 giugno 2018

»» QUI la scheda audio)


 
 
 
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