Mentre si ergono muri a separare stati e nazioni, si rafforzano vecchie frontiere e se ne costruiscono nuove lì dove era data per scontata la libera circolazione di cose e persone, arriva da Venezia un hashtag rassicurante: Freespace, il titolo (ed il tema) scelto da Yvonne Farrelle e Shelley McNamara, per la XVI edizione della Biennale architettura che si è aperta nelle due sedi dei Giardini e delle Corderie. Freespace – dicono le due curatrici – è la generosità che dovrebbe caratterizzare il welfare degli spazi pubblici e incoraggiare la condivisione e la libertà di comportamenti, ma anche la sensibilità ai doni della materia e della luce, perché «considerare la terra come un Cliente implica una serie di responsabilità a lungo termine».
Un manifesto “gentile” che si concentra su una vaga nozione di architettura come rivelazione di inattese potenzialità: «Ogni giorno veniamo bombardati da notizie strazianti che ci permettono di capire il mondo ed essere partecipi. Ma è altrettanto importante capire che in ogni parte del mondo ci sono persone e luoghi che ci possono risollevare il morale. L’architettura è di per sé ottimista». Paradossalmente quindi l’architettura diventa “libera” quando ritorna ad occuparsi dei propri doveri: offrire spazi che parlino al sentimento e alla ragione, catturino lo spirito dei luoghi, esprimano un’attitudine alla condivisione, scoraggiata e addirittura inibita dalla realtà di questi tempi difficili dove strade, piazze, edifici collettivi e monumenti sono sempre più circondati da sbarramenti e controlli perché nel mirino dello stragismo del terrorismo globale.
Quello del Freespace è infatti un tema sensibile, scelto come rivendicazione del modernismo del XX secolo: «Befreites Wohmen» vivere liberamente – come proclamava nel 1929 il manifesto di Sigfried Giedion – era l’annuncio di una società trasparente e fluida, foriera di una civiltà che presto sarebbe appassita nelle rovine della guerra mondiale e che oggi annaspa nelle contraddizioni della privatizzazione dello spazio pubblico e dell’ansia di controllo di società che si sentono costantemente sotto minaccia.
Il Freespace di Ferrell e McNamara riflette questa nuova condizione: l’architettura parla di se stessa; schiva sia la politica che l’ideologia e diventa così estensibile da poter accogliere tutto. L’accento si sposta dalle grandi alle piccole cose in una narrazione ottimistica sulle potenzialità dell’architettura di superare le difficoltà con la poesia dell’ascolto e la magia del progetto. Così la flessibilità del concetto curatoriale si riflette nelle risposte autoriali, in qualche caso difficili da comprendere per eccesso di generosità.
La migliore dimostrazione è fornita più dalle curatrici che dai loro colleghi interlocutori: nei modi della narrazione e nelle scelte dell’allestimento. Ponendo al centro la realtà e la materia dell’architettura, le due architette di Dublino hanno infatti provato a “liberare” lo spazio delle due sedi storiche: il padiglione centrale ai Giardini e le imponenti Corderie dell’Arsenale. Nel primo la “pulizia” ha significato togliere muri, eliminare porte, creare prospettive fluide per apprezzare il labirinto delle sale e riportare alla luce sinopie nascoste nel tempo, come la finestra di Carlo Scarpa, vero tocco di “grazia ricevuta” dal Dio dell’architettura.
Analogamente nelle Corderie, le installazioni degli invitati fanno un passo indietro per valorizzare la gloriosa prospettiva delle massicce colonne in mattoni: una parata trionfale di tre chilometri, sottolineati dal nastro misuratore dipinto sul suolo. La struttura della fabbrica è la protagonista che fa impallidire le singole installazioni, mettendo a nudo le ambizioni degli architetti di emulare gli artisti. Si accorgeranno inoltre i visitatori di un gesto d’attenzione: dappertutto, sia all’interno che negli spazi esterni di collegamento, panche e sedili – in legno, in pietra, in metallo – per cogliere un attimo di riposo e godere, come nell’incomparabile spettacolo delle Gaggiandre sospese sull’acqua, scorci della laguna come spazi di riflessione o anche di puro godimento.
Un’intuizione sviluppata da Francesco Dal Co nella regia del Padiglione Vaticano nel bosco “riscoperto” dell’isola di San Giorgio alle spalle della reliquia palladiana e della Fondazione Cini. Dieci cappelle laiche disseminate tra alberi e cespugli, tra la terra e il filo d’acqua, per ricordarci che l’intimità e il colloquio con se stesso sono la massima forma di spazio libero di cui abbiamo oggi bisogno.
Nel complesso questa XVI Biennale di Architettura si presenta in un format non ansioso, dove la tecnica del centrocampo prevale su quella del goleador anche il futuro si tinge d’antico; soprattutto ai Giardini dove il racconto delle curatrici sembra un omaggio al loro famoso conterraneo irlandese James Joyce: un flusso di coscienza dove il passato viene reintegrato dal presente in un blando commento che non sempre convince per la sua pertinenza.
Scelta che ha sconcertato chi si aspettava maggior realismo di proporzioni, ma che in fondo è espressione di quella poetica individuale che si richiede ad ogni curatore. Anche quelli che dei padiglioni nazionali: come la Gran Bretagna che ha liberato lo spazio del tetto, rendendolo accessibile per vedere dall’alto i giardini, o la Svizzera cui va la palma della più ironica interpretazione dello spazio liberato, qualunque cosa questo possa significare. Una casa dove il visitatore, come Alice, si muove nei paradossi sei salti di scala in una casa che sembra reale, ma è la messa in scena di un tour virtuale nel mondo della quotidianità dell’abitare elvetico: il lato oscuro che si nasconde dietro l’innocenza del mercato.
Maria Paola Forlani