Il Doctor J italiano. Poco meno di due metri, braccia lunghissime, abilità atletica e tecnica, la capacità di veleggiare per tiri dalle pose plastiche (perfette per le immagini fotografiche, alcune delle quali a ritrarlo indimenticabili!). E la dedizione alla squadra.
Marco Solfrini da Brescia è morto. Aveva da poco compiuto sessant’anni. Un malore l’ha stroncato. Un infarto. Tradito dal cuore, proprio lui che in campo sapeva gettare il cuore oltre l’ostacolo: generoso nel gioco, altrettanto nella vita quotidiana dove sapeva spendere le proprie opinioni in favore di importanti temi civili. Idee forti, coraggiose, che denotavano sempre la sua grande apertura al mondo, agli altri. Un uomo libero. Senza alcuna posa da vip.
La prima volta che ho sentito parlare di Marco Solfrini è stato negli anni Settanta, quando non era ancora famoso, tutt’al più un giovane di belle speranze. Me ne aveva tracciato un entusiastico ritratto il mio amico Fabio Borghetti, anch’egli di Brescia, il quale aveva giocato con lui nelle giovanili della squadra della città Leonessa d’Italia. Lo dipingeva come un fenomeno. Aveva ragione. Forse non ci voleva molto per afferrare il talento di quel giovanottone. Però quanti si sono persi strada facendo? Lui no. Marco era arrivato al top.
Le sue tappe: Pinti Inox/Cidneo Brescia, sino al 1981-82; Banco Roma, sino al 1985-86; Fantoni Udine, sino al 1987-88; Alno/Turb. Fabriano, sino al 1990-91; Ticino Ass. Siena, sino al ritiro avvenuto al termine della stagione 1994. Nove stagioni, fra l’altro, trascorse in doppia cifra di punti. E poi la ‘parentesi’ con la maglia della Nazionale: cinque azzurri anni, dal 1979 al 1984, contrassegnati dal meraviglioso, a tratti rocambolesco ma meritatissimo, argento olimpico conquistato a Mosca ’80 contro i mostri della Jugoslavia unita. 68 le sue presenze con la canotta color del cielo.
Marco Solfrini mi aveva raccontato del suo esordio con l’Italia. Battezzato da Pier Luigi Marzorati, che gli aveva proprio fatto un esame caratteriale dal nostro peraltro brillantemente superato, con le armi di una serena ironia, delle virtù tecniche e del gioco aereo.
A sessant’anni ancora sapeva schiacciare Solfrini. Già perché l’antica passione gli covava sempre nell’anima. E giù ancora medaglie, auree, argentee o bronzee che fossero: Europei e Mondiali over 45 / over 50. E di queste avventure vissute con autentico ardore e genuina passione Marco scriveva con altrettanto trasporto. Scriveva bene, sapeva portarti nel suo fatato mondo, quello della palla a spicchi che tanto abbiamo amato.
Anche con una squadra di club (quella capitolina) il nostro caro Doctor J aveva vinto non poco: l’epocale scudetto 1983, con in panca il Vate Bianchini, e, a seguire, una Coppa dei Campioni (79-73 vs. Barcellona), una Intercontinentale (davanti a Obras Sanitarias, Sirio, Barcellona, Marathon Oil) e una Coppa Korać (doppio scontro fratricida contro Caserta). Eppure si aveva l’impressione che lui fosse sempre leggermente sottovalutato (non certo da chi lo aveva nei suoi ranghi o dai compagni di gioco). Chissà… forse non peccava di sufficiente egocentrismo e narcisismo. Di certo era un califfo del gioco. Uno dei migliori atleti che abbiamo mai avuto nel Bel Paese. E, fatto che non guasta, una excellentissima persona. Vir, come dicevano i Romani. Nobile e forte.
Ci mancherà tantissimo. Ci mancherà.
Alberto Figliolia