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In libreria/ Maurizio Rossi. “Riόne Munnu (Borgata Mondo)” di Maria Lanciotti
01 Marzo 2018
 

Il volumetto in dialetto sublacense è la decima pubblicazione della Collana Aperilibri, progetto sostenuto dalle associazioni AIC, Planet Onlus, Il Foro e Periferie per la promozione e divulgazione della buona poesia sia in lingua che in vernacolo, con particolare riguardo per le nuove generazioni

 

 

La malinconia del ricordo è la tentazione che spesso spinge a scrivere i poeti dialettali e non solo; la Lanciotti, al contrario, è portata al ricordo che resta vivo nell’oggi, vivo e fecondo di speranza: il passato non torna, certo, ma il suo seme è la vita del presente e la speranza del futuro.

A lla saccoccia ‘e gliu core/ ci stau ji simi/ e nnu pujiu de tera.// E ll’addore della primavièra. (Nella tasca del cuore/ conservo i semi/ e un pugno di terra.// E il profumo della primavera.)

Semi e terra sono ciò che può contenere la rinascita, la fecondità, la Primavera; anzi, il suo profumo, che è molto di più del nome: è la sostanza sublimata e penetrata in quella ancestrale porzione dell’encefalo, che la corteccia e le strutture pensanti sminuiscono e sopiscono, ma non annientano.

Staggiúni inizia e finisce descrivendo due mobili-simbolo della casa che cadono in pezzi, distrutti dal tempo e dal non-uso: ma se l’incipit ci dice della legna che marcisce, abbandonata nella legnaia – ricordo di cose finite – nella madia c’è ancora l’odore (ecco…) del pane e della lavanda, testimonianza e annuncio di una nuova fioritura degli alberi e della vita.

La legna raccolta, spostata, usata, scandisce il ritmo del tempo, così come i gatti, Ji vatti che no la finiscéenu/ de figliane, in una fecondità ostinata e naturale; viene da pensare che se “non esistono più le stagioni”, forse non dipende solo dalla variazione dell’orbita o dell’inclinazione della Terra, ma anche dalla perdita dell’umano baricentro: ascolto di odori, suoni, sapori, parole di nu furistéru/ che... s’assettà a magnane co niari/ chello che tenèmmo/... che ci tenne uniti con le parole/ e il canto a distesa/ co ju scuardu/ ntrasognatu/… Un forestiero, straniero, altro da sé, portatore di un mondo che immette aria nuova nell’intimo della casa e nel ripetersi dei gesti: con le parole, con il canto.

Le parole uniscono; il canto, lo sguardo stupito, risveglia il cuore: sono i semi che possono rinnovare l’abitudine del quotidiano, la tristezza del perduto, che possono riordinare il caos delle stagioni dell’uomo e della Natura.

Riόne Munnu ripercorre la trasformazione dal Mondo-Paese al Paese-Mondo: tutti mangiavamo e mangiamo lo stesso pane, ma oggi Mméso a millanta òci/ ...ci chiediamo s’è chistu ju pà cotiddianu/ da spezzane nzunu./ ... oggi, che Natale non si sa più dove sia e non si rompono più le noci; che ci rendiamo conto che, se siamo a questo punto, non abbiamo realizzato Ju sognu de Giasucristu... όlesse bbe’; che ci sono altri Paesi distrutti dalle bombe e altri refuggi ‘e cartuni.

Allora che vale ricordare Ju giardinu/ ‘e Marietta che era ju più beglju fra tutti/ de chigliu munnu, il vento che faceva migrare i semi, gli orti... la guerra dei padri e delle madri? Senza dubbio la Lanciotti FA, semplicemente FACENDO Poesia e quest’azione di per sé suscita una re-azione in chi legge, in chi ascolta: il FARE può indurre un cambiamento del cuore, del pensiero. Il messaggio è comunque chiaro: l’immagine di noi che cerchiamo nello specchio non è l’”uomo-macchina” efficiente e super-sempre-connesso, come pian piano ci stiamo convincendo!

Infine, la terza parte – Canzone e revaglio alla pace/‘e gli monticerchènno/ caccosa/ c’aglio perso/ con l’intento di Retroàne ju fju lonco/ de gliu tempo… È chiaro che per Maria ricordare è un memoriale, ripresentare a se stessa quel tempo, rumori e profumi che oggi evocano una consapevolezza impossibile allora: scopre beni nascosti, allora non riconosciuti, che emergono distendendo le pieghe degli anni.

Rebbolle la tera/ delle speranze/ rabbelate: l’assonanza tra il primo e l’ ultimo verbo significa quel legame stretto tra morte e vita, passato e futuro, malinconia e speranza, che prima ancora d’essere filosoficopensatoè còlto – poetico; inevitabile e necessario se non ci basta sopravvivere, passare sopra la vita, ma aspiriamo a vivere dentro la nostra vita.

La struttura delle composizioni consta di un verso libero, breve, anche di una sola parola che rallenta la lettura e posa l’attenzione su un aggettivo, un verbo, perché possano essere assimilati. Interessante anche lo studio dialettale; ad esempio, la u finale di verso, preceduta da sillaba tonica, sostituisce quasi sempre la o e si alterna alle altre vocali: evidentemente si tratta di vocaboli latini che nella vulgata hanno perso la m finale. Le doppie iniziali di parola – comuni anche ad altri dialetti centromeridionali – riecheggiano il romanesco; ma dove quest’ultimo ha troncato le finali, il sublacense ha sostituito la vibrante alveolare r con la dentale nasale n.

Una sola benevola critica: la traduzione in lingua a volte “interpreta” anziché traslare parola per parola; se questo a volte mantiene alta la tensione poetica, altre volte può allontanare dalla sostanza della parola. D’altronde l’argomento “traduzione” della Poesia – che sia in dialetto o in lingua estera – è piuttosto controverso e si presta a molteplici soluzioni.

Da “Staggiúni”

 

La cassa s’ha ótàta,

nẕinente ji tarli hau finitu

de rosicane.

Potarìa esse bbona

pe gliu fόco,

ma parecchje léna

stau aggià a fracicasse

a lla legnara.

La cassa s’è svuotata,/ pure i tarli hanno smesso/ di rosicchiare./ Potrebbe servire/ per il fuoco,/ ma tanta legna/ sta già marcendo/ nella legnaia.

 

Puru l’arca va ‘n pollere,

ma ci rimane j’addore

e llo pane.

Ju telu c’abbotéa

la massa

ha remasu a gliu funnu

nẕuno aj’addore ‘e spichetta.

E j’arbiri stau pronti

a refjurine.

Anche la madia cade a pezzi,/ ma conserva l’odore/ del pane./ Il telo che avvolgeva / l’impasto/ è rimasto nel fondo/ insieme al profumo di lavanda./ E si preparano gli alberi/ a rifiorire.

Da “Riόne Munnu”

 

Non ce sse oléa crée,

cuandu se nne parléa.

Sdeloncati passuni

e antiche jastéme,

ci sarimo magnatu

tutti

lo stesso pà

e osservatu

nu suju commannamentu:

òlesse bbe’.

 

Ju sogno de Giasucristu.

 

Non ci si credeva,/ quando se ne parlava./ Abbattuti steccati/ e divisioni ancestrali,/ avremmo mangiato/ tutti/ lo stesso pane/ e osservato/ la sola Legge che conta:/ amare.// Il sogno di Cristo.

 

Tutti jòmmini èranu fatta

la cuera,

agliu fronte o alle mignère.

La cuera delle matri

era tutt’i jorni,

a commatte co lla fame ‘e gli fiji

e gli sgari d’aggiustane.

E gliu camminu

attappatu,

e chelle nùole nere

che s’ammalloppéenu

sempe

cuondu ésse stennéenu ji panni.

 

Tutti i padri avevano fatto/ la guerra,/ in trincea o nelle miniere./ La guerra delle madri/ era tutti i giorni,/ a combattere con l’appetito dei figli/ e gli strappi da rammendare./ E il camino/ che non tirava,/ e quelle nuvole nere/ che s’addensavano/ sempre/ quando loro stendevano i panni.

Da “Canzone”

 

Èssuju, arìa,

lucènno méso a gli babbalotti

gliu piantu ‘e lla notte

ca lustra l’erba

e agliùma la mente.

 

È comme ‘na canzone…

... na ventata d’aria fina

che me ss’encolla

e trasporta

agliu tempo ca rènne

delle staggiúni a vinine.

 

Eccolo arriva,/ scintillando tra le ragnatele/ il pianto della notte/ che lucida l’erba/ e illumina la mente.// È come un canto …/ una ventata d’aria pura/ che m’afferra/ e trasporta/ al tempo fruttuoso/ delle annate a venire.

 

Vajo cerchènno caccosa

c’aglio perso

oppuramente sprecatu.

Ma no lle so ficcate

n saccoccia

le lacreme ch’aglio

piantu.

Le cerco dappetuttu

pe fa rescì puro l’àre

e allentàne

j’anginu ‘e gliu core.

 

Vado cercando/ qualcosa/ che ho perduto/ o forse sperperato./ Ma non le ho messe/ in tasca/ le lacrime che ho/ pianto./ Le cerco ovunque/ per richiamarne altre/ e allentare/ l’artiglio del cuore.

 

Maurizio Rossi

(Fonte: Poeti del Parco, 23/2/2018)

 

 

Maria Lanciotti, Rione Munnu

Aperilibro” n. 10, Ed. Cofine, Roma, 2018


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