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Gianfranco Cercone. “La forma dell'acqua” di Guillermo Del Toro
25 Febbraio 2018
 

Da un racconto fantastico, e in particolare da una favola, ci si può attendere che sia capace di trasportarci in un mondo immaginario dove gli ostacoli, le negatività e anche gli orrori del mondo reale, sono evocati, in una forma trasfigurata, ma soltanto per essere superati, sciolti, cancellati una volta per tutte, cosicché da quel racconto possiamo ricevere una forma di consolazione.

Ora, una caratteristica della favola cinematografica che il regista Guillermo Del Toro ha realizzato rielaborando il mito della Bella e la Bestia (il film si intitola La forma dell'acqua), è di non essere per nulla consolatoria.

È vero che nel finale il cattivo è sconfitto e l'amore trionfa, ma, come vedremo, quel finale risulta così irreale, ha per questo un tale sapore di cenere, che è l'opposto di un lieto fine; dimostra l'incongruenza, rispetto a questo mondo, delle speranze che illustra.

La forma dell'acqua è, in sostanza, il ritratto di tre solitudini, tutte e tre, per diverse ragioni, senza redenzione, senza un plausibile riscatto.

La prima è quella di una donna delle pulizie, affetta da mutismo, bassa, minuta, timida: uno di quei caratteri introversi che solo in apparenza si sono adattati al mondo esterno perché in effetti con quel mondo mantengono solo il commercio strettamente necessario alla sopravvivenza, preferendo invece immergersi nel loro mondo interiore (quello dei sogni, delle fantasie d'amore, forse dei film da ammirare).

La donna è amica di un pittore disoccupato, solo ed emarginato come lei e più di lei: è un uomo maturo, omosessuale, pateticamente alla ricerca delle attenzioni dei giovanotti, inseguendo quell'amore che il razzismo della società in cui vive gli ha evidentemente sempre impedito di realizzare (il racconto è ambientato nell'America dell'inizio degli anni Sessanta; e in una scena l'uomo, scoperto omosessuale, è cacciato da un locale pubblico).

Se per questi due diversi la vita non va bene, va forse ancora peggio per il terzo protagonista, che appartiene al novero dei “normali”. Si tratta di un agente governativo, dunque un poliziotto, prigionieri di alcune banali ossessioni: il mito del successo e il mito della virilità, per le quali, teso com'è a dimostrarsi un maschio vincente, nonostante le inevitabili delusioni a cui va incontro, non riesce mai a entrare davvero in relazione con nessuno, né nel laboratorio scientifico che dovrebbe vigilare, né in famiglia: sposato e con figli, rispetto al moglie non è che una macchina sessuale, perfettamente insensibile.

Questi tre personaggi, perdutamente infelici, sembrano trovare una soluzione alla propria difficoltà di vivere, attraverso l'incontro con una creatura immaginaria. Si tratta di una specie di alieno, anfibio, un umanoide, altrove venerato come un dio, rapito e imprigionato in un laboratorio segreto, che sarà per il poliziotto la vittima ideale, su cui egli potrà sfogare fino in fondo le proprie frustrazioni e il proprio sadismo, sperando anche grazie a lui di fare carriera; per la donna delle pulizie, un amante ideale; per il pittore, un supporto magico, che gli infonde vigore giovanile, la fiducia in se stesso, e perfino guarisce la sua calvizie.

Ma la stessa natura fantastica dell'umanoide dimostra che per l'infelicità dei tre personaggi non esiste una soluzione realistica. E la profondità dell'acqua in cui, sul finale, i due amanti, la Bella e la Bestia, la donna e l'“alieno”, si ricongiungono suggerisce che, in fondo, non c'è spazio per l'amore nel mondo terrestre.

Il racconto che, ambientato ai tempi della Guerra Fredda, ha delle componenti spionistiche, è a volte rocambolesco. I tre personaggi sono un po' semplificati, come vuole del resto il genere della favola. Sono però originali e incisivi, scolpiti con grande esattezza. E il senso di amarezza e di pessimismo che pervade tutto il racconto, suona sincero.

 

Gianfranco Cercone

(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 24 febbraio 2018
»» QUI la scheda audio)


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