La poetica della parola
tra ermetismo, metafisica e interiorità
La poesia di Quasimodo è caratterizzata da due itinerari lirici che, a nostro giudizio, si integrano nell’unità di un unico percorso poetico.
Chi ha gridato al tradimento di Quasimodo nei confronti della scuola ermetica e all’abbandono della “poetica della parola”, in realtà ha guardato soltanto con occhio miope e condizionato da fattori esterni alla serenità del giudizio critico.
1. Quasimodo ermetico
Se nella nostra trattazione critica parleremo di primo e secondo Quasimodo è soltanto per motivi scritturali, in quanto è nostro intento, invece, evidenziare come ci sia un “unico” Quasimodo e come quel j’accuse della critica circa la “svolta” o il “tradimento” del poeta modicano sia stato caratterizzato da toni di esagerato risentimento verso un uomo che, consapevolmente o meno, aveva dato l’impressione, e ci avvaliamo di una immagine di linguaggio volgare ma estremamente efficace, di “sputare nel piatto dove aveva mangiato”.
Non c’è dubbio che l’incipit poetico di Quasimodo si muove all’interno di quella che, nel decennio 1930-1940, viene ufficialmente chiamata “scuola ermetica”, scuola i cui dettami poetici trovano il campo di riferimento soprattutto nell’in-segnamento del simbolismo francese.
Il simbolo, dal greco syn-bolon = “messo-insieme”, è un categoria che nel contempo dice e non dice, in quanto si muove nell’ordine della ambiguità e della polivalenza della parola, e produce effetti allusivi, evocativi dando ai testi un’atmosfera di oscurità suscettibile di pluralità interpretative.
Quasimodo entra nel mondo ufficiale della poesia facendo propria questa concezione della scrittura lirica e dando spazio nel suo poetare a parole raffinate ed oscure, ad orizzonti allusivi ed ambigui, così da valorizzare, in modo “elegante e raffinato”, la singola “parola poetica”, liberandola da qualsiasi funzione descrittiva.
Questa “predilezione” per la parola, che fu, sicuramente, determinata anche dall’accostamento di Quasimodo al mondo filologico classico greco-latino, servì ad Oreste Macrì per connotare la poesia del Nobel come “poetica della parola”.
Fu una felice intuizione che ebbe ulteriori sviluppi di approfondimento in seno alla critica; dai vari interventi interpretativi si può dedurre che in questa “poetica della parola” i modelli di riferimenti di Quasimodo risultano D’Annunzio, Mallarmé, Ungaretti, Pascoli, Montale, le cui presenze aleggiano nel tessuto lirico della versificazione del poeta, ma con un’autonomia di linguaggio e di trasfigurazione di personali sentimenti.
La parola, dunque, risultò il centro dell’universo poetico quasimodiano, ove scrittura simbolista e scrittura ermetica divennero le due facce del primo itinerario lirico, tant’è che Macrì, nel saggio introduttivo a Poesie (Edizione Primi Piani, Milano, 1938) e, poi, in Esemplari del sentimento poetico contemporaneo (Vallecchi, Firenze, 1941), così si esprimeva: «La parola è l’elemento base della tecnica quasimodiana, il principio di valore cosciente, il desideratum finale, il significato catartico in cui si vuole essenzializzare e risolvere e puntualizzare tutta l’interna corrente della ispirazione e del pathos».
2. La parola come luogo dell’interioritas
La parola poetica del Quasimodo di “Acque e terre”, “Oboe sommerso”, “Erato ed Apollion” non può essere semplicemente interpretata, come ebbe a sostenere Gianni Pozzi ne La poesia italiana del Novecento (1965), in funzione del perseguimento di “geometrie rigorose di un particolare meccanismo” o di una “astrattezza di indeterminate voci e figure, scintillanti come simboli astrali, nel cielo di una metafisica memoria”; noi riteniamo che l’uso della parola poetica abbia perseguito, in Quasimodo, un obiettivo “ontologico”, cioè quello di rivelare l’être (l’essere) e la “condizione dell’interioritas umana”, sia a livello universale che sul piano personale.
Se si leggono in parallelo i testi poetici del primo Quasimodo e il carteggio Quasimodo-La Pira, si può capire lo stato esistenziale in cui viveva il poeta, e, di conseguenza, l’humus entro cui nasceva, si formava, si componeva e si esprimeva la sua parola poetica. L’ambiguità e l’ermetismo del verso non erano “esercizi geometrici”, ma aspetti intrinseci di un linguaggio lirico, visto che la comunicazione delle prime prove poetiche quasimodiane si muoveva nel versante della struttura più intima della persona umana, qual è appunto l’interioritas.
Il primo Quasimodo è il poeta dell’interioritas macerata e sofferta, che riesce perfino ad umanizzare le acque e a renderle capaci di provare il dolore dell’anima, come in “Ariete”: «e un’ansia prende le remote acque / di gelidi lauri nudi addii pagani»; c’è qui il Poeta i cui versi – come scrisse Montale – cantano, “con l’andatura leggera e alata di un inno”, la Sicilia nei suoi scorci di paesaggio e di memorie e il sentimento dell’esilio. Le “acque e le terre” della Sicilia sono, infatti, nella prima raccolta di Quasimodo, una presenza continua: il dolce colle di Tindari che domina sul golfo di Patti e le isole Eolie (“Vento a Tindari”); il mare «che odora della terra / dove canta alla riva la mia gente» (“Terra”), le notti chiare del Sud («“Mai ti vinse notte così chiara») e la primavera presso le rive dell’Anapo («marzo lunare / già d’erbe ricco e d’ali», in “Albero”).
Se, dunque, è vero che il poeta, da una parte, in “Acque e terre” muove la tendenza espressiva dei suoi versi in una direzione comunicativa di tipo ermetico, dove prevale un processo di valorizzazione della parola in sé, della parola isolata dal contesto e dimensionata in un’atmosfera suggestiva e ricca di metafore ed analogie che rendono complessa l’interpretazione delle liriche, è altresì vero, dall’altra, che Quasimodo, richiamando nel suo poetare aspetti del paesaggio della sua terra, introduce un realismo dentro il quale affiora la fugacità di una condizione umana appesantita dal senso della solitudine, come appare evidente sin dalla nota poesia “Ed è subito sera”: «Ognuno sta solo sul cuore della terra / trafitto da un raggio di sole: / ed è subito sera».
Riteniamo, pertanto, che dentro la parola quasimodiana sia presente, già sin dalla prima prova poetica, una sinergia tra realismo ed ermetismo. Dietro certe eleganze e – direbbe Mario Petrucciani – “la densa compenetrazione e concentrazione di analogie e metafore”, c’è sempre un sentimento, una rivelazione dell’essere, un tormento e una dinamica interiore che trova i suoi approdi in una riflessione sul senso della solitudine e della precarietà umana.
Un ulteriore rigore ermetico emerge sicuramente nelle raccolte Oboe sommerso del 1932 e in Erato e Apollion del 1936, in cui la parola quasimodiana raggiunge i livelli più alti di rarefazione ermetica.
Il poeta muove la sua poesia su versanti filosofici, metafisici ed antropologici: il dolore della vita, la solitudine, la frustrazione psicologica, “il nulla delle macerie del cuore” direbbe Gilberto Finzi. Si tratta di tematiche che Quasimodo riporta sulla pagina con un linguaggio poetico astratto, introverso e, a volte, aristocratico, nonché con il ricorso ad accostamenti analogici spesso inconsueti e forzati, che finiscono per togliere alla parola persino il suo valore semantico:
Sillabe d’ombre e foglie,
sull’erbe abbandonati
si amano i morti.
Odo. Cara la notte ai morti,
a me specchio di sepolcri,
di latomie di cedri verdissime,
di cave di salgemma,
di fiumi cui il nome greco
è un verso a ridirlo, dolce.
(Da: Erato ed Apollion, “Latomie”)
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Tu vieni nella mia voce:
e vedo il lume quieto
scendere in un’ombra a raggi
e farti nuvola d’astri intorno al capo.
E me sospeso, a stupirmi degli angeli,
dei morti, dell’aria accesa in arco.
Non mia; ma entro lo spazio
riemersa, in me tremi,
fatta buio ed altezza…
(Da: Oboe sommerso, “Fatta buio ed altezza”)
Questi versi, come ben si può notare, viaggiano su binari contorti e risentono di un eccessivo giuoco fonico e cerebrale; l’astrattezza linguistica è frutto di un’esperienza tecnica scaltrita e capace di creare geometrie metafisiche in cui si coglie una deliberata oscurità, divenuta strumento di un meccanismo poetico scelto in maniera consapevole e determinata. Ci sarebbe da capire perché Quasimodo si eleva a questo rarefatto grado di esperienza ermetica. È una scelta, quella del Nobel, tesa a suscitare sempre più l’attenzione verso la sua poetica, quasi a volersi porre come creatore di una tecnica stilistica nel periodo tra le due guerre, oppure si tratta di acrobazie intellettuali determinate dal bisogno di “dire” e “non dire”, di “rivelarsi” e “non rivelarsi”, al fine di avvolgere la sua poesia in un alone di accattivante ricerca metafisica?
Noi riteniamo che il sentimento poetico di Quasimodo non possa essere giudicato privo di sincerità e di autenticità, come pure i temi del suo poetare non possano non considerarsi di forte valenza universale; forse è prevalsa in lui la convinzione che, per imporsi nel mondo letterario del suo tempo, occorresse “volare alto”, assolutizzare il valore della parola poetica in sé, andando in modo esagerato oltre le dimensioni descrittiva e narrativa; queste potevano infatti rischiare non solo di fare scoprire eccessivamente l’io-poetante di fronte al lettore ma, soprattutto, di far sfociare il contenuto poetico in forme anche di banalità.
Va ricordato, peraltro, che le frequentazioni culturali del periodo condizionavano fortemente l’esperienza poetica di Quasimodo; la sua collaborazione a Solaria, a Circoli e a Letteratura, nonché i suoi rapporti con Montale, Sbarbaro, Grande, i suoi incontri con artisti, scrittori e musicisti come Arturo Martini, Cantatore, Sinisgalli, Persico, etc., creavano attorno a lui delle aspettative, per non deludere le quali egli, probabilmente, pensò fosse necessario cimentarsi anche, come si evince da parecchie liriche di Oboe sommerso ed Erato ed Apollion, in acrobazie e giuochi di tecnica stilistica, in cui la parola, però, finì per essere assolutizzata a tal punto da creare una discrasia tra ontologia e realtà.
Ma la stagione ermetica quasimodiana non può essere circoscritta a questa ricerca di verbalismi indecifrabili, perché c’è, coerentemente con le tematiche affrontate, un’inquietudine umana e c’è un forte tormento interiore, i quali rivelano il rapporto tra interioritas e dimensione della fede, di cui ci occuperemo successivamente.
Domenico Pisana
(Da Radio RTM, 26 gennaio 2018)