IV
Il mio nemico, il vuoto. Non so cosa ho perduto. Forse, le mie prime stagioni.
Fine di un giorno: come morire, per rinascere all’alba.
Poesia, quando il silenzio dell’anima spaventa: semplice, amica.
Brucia la fretta le piccole cose, svanite nella corsa. Afferro ancora lembi d’innocenza.
(Amore nato sui banchi di scuola! un tremore, un rossore e nemmeno una stretta di mano).
Fra le pagine di un libro, fiori secchi e una spiga. Torno a correre nei campi dorati, col pensiero.
Pezzi di cielo, brani di discorsi. Scorci di una vita che non sento mia.
(L’odore delle scarpe nuove, d’erba e di paglia).
Sete di sorgiva.
(Mio padre. Silenzi eloquenti, mute domande. L’aspra carezza. Il suo guardarmi, furtivo, quand’ero triste).
Arsura. Reclinano il capo le corolle. S’arroventa la pietra. Ristagnano i pensieri.
Torno a specchiarmi alla fontana: asciutta. (Volate via le bolle di sapone).
Nella zolla gravida di semi, memorie e attese.
Batte la vita in me. Come nelle acque fonde, riflessi e mistero di colori.
Fui madre. Smisi di cercarmi, per un po’.
V
La corsa inebria ma non cura ferite. Senza pudori, a fondo, scrutare laddove fa più male. Senza invocare aiuto. Senza pentirsi di vivere.
Il dio l’ho lasciato in ogni cosa su cui posai lo sguardo. Ovunque lo ritrovo, senza un nome, senza un’icona.
Darmi per avermi. Ma che tristezza, se insieme non si spezza il pane.
Colombi ammaestrati sulla scaletta lucente di lustrini. Un tocco, e s’inverte la rotta: riporta al primo l’ultimo piolo.
La ruggine dei vinti limiti scava ulcere profonde. Non mi sottraggo. Continuo a limare sbarre.
Palpita la vita, incessantemente. Nel cerchio dei passi, cerca un varco la mente.
Orme di lupi sulla neve. Torbide presenze. Gemiti che nessuno ascolta. Un Cristo in croce in ogni angolo di strada. E la speranza che mai abbandona l’uomo.
Negare la luce per ignorare d’essere ciechi. Calpestare per non raccogliere. Uccidere per non curare. Annullarsi per non scegliere. Rifiutare l’amore per non doverlo pagare con l’amore. Condire di spezie un cibo che sa di povertà. Di nulla si muore.
Urla dementi, corsa dissennata. Fiume in piena la folla mi strascina. Ma dove?
Crocevia fra grattacieli. Bimbe vestite di bianco, lunghi capelli sparsi sul selciato rosso del loro sangue. E le madri, impietrite, occhi asciutti, sollevarle al petto nell’ultima carezza. Il silenzio, poi l’urlo: “Non più violenza!” Un battito, un boato, un unico respiro. Un sogno all’alba.
Non più figura oscura, giudicante. Ora il mio dio è sunto e somma d’ogni fratello, d’ogni germoglio, d’ogni particella. È il lungo pianto di una umanità in cammino, la lotta d’ogni coscienza, il lamento del mondo, il sorriso del mondo. Il mio dio è la pazzia la resa la ripresa, è ogni cosa che è.
Quando le mani non sanno accarezzare e il cuore gela nel mutismo, quando la mente apparenza e verità confonde e ogni stagione uguale all’altra appare, ecco spuntare il cardo dalla roccia.
Non più proni. Ergersi, contro rassegnazione e ingiustizie.
Maria Lanciotti