È in certi film americani – e in certi film inglesi – che si ritrova, più spesso che altrove, quella sostanza rara e preziosa che è l'idealismo.
Ma l'idealismo cos'è? Se per definirlo volessimo basarci sull'ultimo film di Steven Spielberg intitolato The post, dove appunto lo si può riconoscere, si dovrebbe dire anzitutto che l'idealismo non è, almeno non soltanto, nell'astrattezza di quei sognatori che ignorano del tutto le regole della vita pratica; perché i personaggi del film di Spielberg sono i proprietari, gli editori, i giornalisti di un quotidiano, il Washington post, i quali, per condurre con un qualche successo quel giornale, ne devono curare gli aspetti finanziari, devono tessere amicizie politiche, entrare in competizione con altri quotidiani: insomma con la vita pratica hanno un commercio costante, tale che, come capita, potrebbe indurli al cinismo. E invece, almeno a un certo punto della loro carriera, decidono, alcuni di loro, di accantonare le convenienze della vita pratica in omaggio a una convinzione, per la difesa di un principio che a loro pare perfino più importante della sopravvivenza di quel giornale a cui hanno dedicato tutta la loro esistenza.
Il film si svolge negli Stati Uniti, negli anni Settanta, nel pieno della guerra in Vietnam. E da un dossier segreto, trafugato dall'ufficio del Segretario alla Difesa, fatto pervenire al New York Times e poi, in una seconda copia, appunto al Washington Post, si scopre fra l'altro che l'amministrazione americana si ostina a perseguire quella guerra, a mandare i propri giovani a morire in un paese straniero, anche se uno studio circostanziato ha dimostrato che non esiste nessuna possibilità per gli Stati Uniti di vincere quella guerra.
È giusto pubblicare quei documenti segreti? Non si rischia così di aggravare le condizioni dell'esercito americano, addirittura di mettere a repentaglio la sicurezza del paese?
Il New York Times decide per la pubblicazione, anche perché si tratta di un scoop clamoroso.
Ma quando la magistratura vieta quella pubblicazione, quando chi trasgredisce quel divieto rischia la galera, quando il presidente in carica degli Stati Uniti, Nixon, minaccia le più gravi ritorsioni contro i giornali disubbidienti, quando si rischia di perdere ogni protezione politica, ogni sostegno finanziario, la decisione di continuare a pubblicare si fa altamente drammatica, e può avvenire soltanto per un ideale: quello della libertà di stampa e, insieme, del diritto di un paese alla conoscenza: quel diritto, come sanno bene i radicali, essenziale a una democrazia.
Si sa che in arte non sempre le nobili intenzioni producono bellezza. E anche il film di Spielberg – che certo è come sempre di alto livello professionale, si avvale di ricostruzioni d'ambiente che si indovinano minuziose, di grandi attori, come Meryl Streep e Tom Hanks – ha tuttavia i limiti che sono spesso delle opere edificanti, quelle che vogliono additarci il bene: e cioè i personaggi sono più modelli ideali, che figure vere e concrete. La verità artistica, nel film di Spielberg, si rifugia in certi personaggi secondari: come un giornalista che, tutto contratto dall'inibizione, con un senso puritano di scandalo, corre a consegnare al direttore del suo giornale un oggetto proibito, una scatola che contiene una copia del dossier segreto che una ragazza, una hippie, ha disinvoltamente posato sulla sua scrivania.
Tuttavia: esprimere tutto il valore di un ideale, e costruire, intorno a quell'ideale, un racconto così abile che comunque emoziona, e forse anche infiamma, è, seppure non un merito artistico, un merito civile.
The post ha ottenuto 2 nomination agli Oscar, una per l'interpretazione di Meryl Streep, una come Miglior Film.
Gianfranco Cercone
(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 10 febbraio 2018
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