La zootecnia industriale non è riuscita a schiacciare quella delle origini, come qualcuno avrebbe sperato e forse voluto. E mai lo farà. È anche questo il messaggio che trapela dall’ultimo film dedicato al mondo dell’allevamento da latte, il francese Petit Paysan, dell’esordiente Hubert Charuel, che – dopo aver incassato i favori della critica all’ultimo Festival di Cannes – sta scalando la classifica del box office nel proprio Paese, con 4 milioni di euro incassati in poche settimane di programmazione.
L’originalità dell’opera è quella di raccontare un mondo vivo ma fragile, romantico ma combattivo, realizzando un thriller incalzante e avvincente nella dimensione di un allevamento “etico”. Una dimensione che rimane in sottofondo lasciando emergere una realtà aziendale in cui l’allevatore ha ancora rispetto per i propri animali, punta a fare qualità, lotta e combatte contro avversità ordinarie e straordinarie, come accade in ogni allevamento vero, fatto di gente vera, di rapporti veri, di impegno, dedizione e passione.
Il film narra del trentenne Pierre (il protagonista, interpretato da Swann Arlaud) che alleva trenta vacche di razza Holstein, mantenendo viva l’attività ereditata dai genitori, pur nella consapevolezza delle difficoltà che andrà ad affrontare. Nel volgere di pochi anni, assistito dalle cure della sorella veterinaria, Pierre si impone sulla scena regionale come uno dei più validi imprenditori del settore.
La storia, che si intreccia sullo scenario di un'epidemia di EHD (febbre emorragica epizootica), trascina lo spettatore nelle apprensioni di Pierre, nelle sue preoccupazioni ed ansie, che lo portano a non perdersi un telegiornale, con l’idea ormai fissa al rischio del contagio per tutte le sue vacche, e a variare pian piano le proprie abitudini, in maniera incosciente, ad essere spesso in stalla per valutare il comportamento delle sue bestie, sino alla scoperta della positività per uno dei suoi capi. Qui il pensiero dell’allevatore si fa ossessione, davanti alla prospettiva dell’abbattimento collettivo della mandria, che diventa sempre più concreta.
Oltre le dinamiche del racconto, incalzante e avvincente, senza cali di tensione, e oltre le scelte estreme e illegali operate dal protagonista per gestire la situazione, il film ha il merito di proporre valori altamente educativi, portando finalmente in una stalla, e in una famiglia di allevatori, un pubblico che da tempo ha ormai perso i contatti con il mondo rurale. Un modo per risvegliare le coscienze su una realtà sconosciuta ai più, per accorciare le distanze tra città e campagna.
Il film, che sbarcherà nelle sale italiane il 22 marzo con la NoMad distribuzione, in partnership con l'Istituto Zooprofilattico Sperimentale dell'Abruzzo e del Molise e la Confederazione Italiana Allevatori, ha ottenuto il patrocinio di Slow Food Italia, e circolerà anche negli istituti agrari, in virtù del suo alto valore didattico. Tra le tematiche sollevate, emergono il trattamento etico degli animali da produzione, l'attaccamento degli allevatori rurali al proprio lavoro, vissuto in una dimensione spesso totalizzante. E così a Petit Paysan va il merito di portare ad un ampio pubblico il tema del ritorno alla vita di campagna da parte delle giovani generazioni, che sono impegnate a scrivere oggi il capitolo dell'imprenditoria agricola del futuro.
Intervistato, dopo la presentazione della pellicola, il regista ha svelato non poche ragioni che lo hanno spinto ad intraprendere questa produzione e una carriera da regista che forse non era neanche nei suoi programmi. Parlando della sua famiglia, della loro fattoria con caseificio, situata a Droyes, fra Reims e Nancy, Charuel ha detto che «sono sopravvissuti alla crisi casearia grazie al duro lavoro, a piccoli investimenti e a prestiti».
«Ci vuole molta intelligenza e tanto impego quotidiano per sopravvivere», ha poi aggiunto il regista. «Petit Paysan parla della grande pressione che si vive in un'azienda agricola: si lavora sette giorni alla settimana, bisogna mungere le vacche due volte al giorno, tutto l'anno, tutta la tua vita». Ma non solo: «Il film tratta anche dei rapporti con i genitori che sono sempre fra i piedi, sul peso di quel patrimonio. Si va a mungere come se si andasse a pregare, di mattina e alla sera. Essere un produttore di latte è una vocazione», non una professione, o un mestiere.
«Il mio discorso», conclude il regista francese, lanciando un bel messaggio di speranza, «è oggi meno pessimistico che all'inizio della scrittura del film, cinque anni fa. Ho la sensazione che le persone si chiedano sempre più spesso cosa stanno mangiando. E questo lascia sperare che una rinascita di questo mondo sia possibile».
Qualeformaggio
(29 gennaio 2018)